La società israeliana nel rifiuto di Atalya
Intervista La regista Molly Stuart e il produttore Amitai Ben Abba raccontano «Objector», l’11 ottobre a Terra di Tutti. La protagonista è un’obiettrice di coscienza, nata e cresciuta a Gerusalemme
Intervista La regista Molly Stuart e il produttore Amitai Ben Abba raccontano «Objector», l’11 ottobre a Terra di Tutti. La protagonista è un’obiettrice di coscienza, nata e cresciuta a Gerusalemme
Atalya Ben Abba aveva poco più di 19 anni quando, nel febbraio 2018, entrò in una cella israeliana: 110 giorni di prigione per essersi rifiutata di vestire l’uniforme dell’esercito. Atalya è un’obiettrice di coscienza, nata e cresciuta a Gerusalemme in una famiglia che la accompagna nella sua scelta, dandole con affetto della «stupida» (il nonno) o aprendosi lentamente alle sue ragioni (la madre).
È la protagonista di Objector, film diretto da Molly Stuart e prodotto da Amitai Ben Abba (il fratello di Atalya), uscito nel 2019 e nel prossimo fine settimana tra i protagonisti della sessione 5 storie tra conflitti e resistenze del Terra di Tutti Film Festival, organizzato da WeWorld e Cospe: l’appuntamento è per l’11 ottobre, online sul sito del festival, con cinque film da Burkina Faso, Germania, Sudan e Yemen, tutti incentrati sulle lotte dei giovani per la democrazia e le rivoluzioni nel sud del mondo.
Di Objector abbiamo parlato con Molly Stuart e Amitai Ben Abba.
Tre storie in uno: una scelta personale, uno sguardo sulla società israeliana e la quotidianità dell’occupazione militare dei Territori palestinesi. È un percorso stabilito in precedenza o è nato seguendo Atalya?
Molly Stuart: L’idea iniziale era un focus sulla scelta di Atalya. Poi, procedendo con le riprese, abbiamo deciso di focalizzarci sulle reazioni della società israeliana e in particolare sul rapporto tra Atalya e sua madre: mostrare come la scelta personale della giovane abbia avuto un effetto concreto su una delle persone a lei più vicine.
Amitai Ben Abba: C’è stato un momento, all’inizio, in cui immaginavamo un documentario classico, con esperti che rispondessero a delle domande, con molte informazioni. Ma poi abbiamo capito che questa storia personale poteva raccontarne una più generale: la società israeliana e l’occupazione attraverso le lenti dell’esperienza di Atalya.
In famiglia le reazioni sono diverse: la madre inizia a seguire le orme di Atalya, il nonno resta fedele all’idea dell’esercito come colonna del paese pur mostrando il grande amore che prova per lei. La famiglia Ben Abba si è stretta intorno ad Atalya, a differenza di molti refusnik che vengono allontanati dai propri familiari.
MS: Le esperienze degli obiettori di coscienza sono molto diverse. È stato difficile decidere di non seguire il percorso di altri refusnik, ma una storia sola ha più efficacia anche se non è rappresentativa di ogni caso.
AB: Atalya è stata molto attenta a mantenere vive le sue relazioni con i familiari e gli amici che non condividevano la sua scelta. E in alcuni casi ha prodotto risultati: un cugino ha seguito le sue orme e preso posizione rispetto all’occupazione. La sua storia mostra l’importanza dell’accettazione dell’altro nonostante decisioni non condivise.
Si può parlare di un movimento che ruota intorno all’obiezione di coscienza? Nel film si vedono decine di giovani che annunciano pubblicamente il rifiuto a indossare l’uniforme.
MS: La lettera di obiettori che mostriamo nel film è stata firmata da circa 150 giovani. Ne è seguita un’altra, che cita la contrarietà all’annessione della Cisgiordania. Attualmente c’è una persona in prigione per aver rifiutato di entrare nell’esercito. C’è una crescita nel numero di refusnik, ma non è esplosiva, non è in grado di modificare le politiche israeliane. Eppure ha il merito di mostrare al mondo che esiste un’opposizione interna. È uno dei motivi dietro questo film: cambiare la visione che americani ed europei hanno di Israele.
AB: I refusnik in Israele sono un fenomeno antico, che risale al 1948 con il primo caso di obiettore che rifiutò di partecipare alla pulizia etnica della Palestina. E poi nella Prima Intifada, nella Seconda. Ogni generazione israeliana ha visto persone rifiutare di partecipare all’occupazione. Il numero non è così ampio da mettere in discussione il progetto di occupazione, ma è importante perché mostra che esiste un’alternativa al rapporto coloniale tra israeliani e palestinesi.
Cos’è oggi la società israeliana? L’esercito è parte dell’identità nazionale?
AB: Il film mostra un angolo della società israeliana, che è molto più complessa dal punto di vista etnico, religioso, politico. Possiamo parlare di quattro narrative: la sionista governativa, l’ultraortodossa, quella dei palestinesi cittadini di Israele e quella della separazione interna agli ebrei, l’egemonia ashkenazi sui mizrahim (gli ebrei di origine araba). Dal primo punto di vista la partecipazione all’esercito è centrale, riguarda l’intero paese. In realtà solo il 50% degli israeliani entra nell’esercito, ne sono esclusi ultraortodossi, palestinesi e i tanti che vengono esonerati. L’esercito non è l’esperienza collettiva comune in Israele.
MS: Va detto che la militarizzazione è parte dell’educazione di ogni israeliano, in modo estremo. I bambini imparano la matematica contando i carri armati, le canzoni sono spesso riferimenti all’esercito o usano un linguaggio militare.
Objector è stato proiettato in Israele?
MS: La première in Israele è prevista per dicembre, pandemia permettendo. In passato abbiamo però proiettato il film sia a Tel Aviv che in Cisgiordania: alcuni israeliani presenti hanno messo in discussione la loro decisione di vestire l’uniforme.
AB: L’idea è realizzare proiezioni gratuite in diverse comunità in Israele e Palestina e stiamo raccogliendo fondi. Chi vuole sostenere questo progetto può farlo sul sito objectorfilm.com.
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