La società disciplinare contro l’esercito di “oziosi e vagabondi”
Prevalgono il discorso securitario e l’ordine pubblico: per simulare autorevolezza agli occhi dei cittadini, conquistarne il consenso elettorale, soprattutto occultare l’incapacità di presa sulle grandi decisioni riguardanti la finanza e l’economia
Prevalgono il discorso securitario e l’ordine pubblico: per simulare autorevolezza agli occhi dei cittadini, conquistarne il consenso elettorale, soprattutto occultare l’incapacità di presa sulle grandi decisioni riguardanti la finanza e l’economia
Non potrebbe essere più opportuna la manifestazione di oggi contro la precarietà e l’austerità, per il diritto al lavoro, al reddito, all’alloggio, in definitiva alla dignità. La fase attuale, infatti, è marcata non solo da disoccupazione, precarietà e impoverimento di massa, dalla durezza dell’attacco al salario e alle condizioni di lavoro, dalle privatizzazioni e dalla drastica riduzione degli spazi di democrazia. Ma anche dalla tendenza a tematizzare la questione sociale secondo un lessico e una strategia punitivi. Chiunque rivendichi attivamente il diritto a una vita dignitosa o solo provi a ritagliarsi spazi di sopravvivenza, al di fuori della legalità formalisticamente intesa, è un nemico sociale in potenza. Sembra quasi che siano di ritorno le ottocentesche “classi pericolose”, a rinnovare la tradizione borghese del razzismo di Stato e della paura dei poveri e dei marginali, nonché il sistema simbolico che tematizza il pauperismo in termini di pericolosità sociale.
Oggi, in Italia, a essere trattati da “classi pericolose” sono prevalentemente senzatetto, immigrati, occupanti di case, “accattoni molesti o petulanti”, formula spesso usata come sinonimo di “zingari”. In una fase di grave crisi economica, allorché vacilla lo Stato sociale e l’area della povertà si allarga a dismisura, perfino a settori di classi medie, prevalgono il discorso sicuritario e l’ordine pubblico: per simulare autorevolezza agli occhi dei cittadini, conquistarne il consenso elettorale, soprattutto occultare l’incapacità di presa sulle grandi decisioni riguardanti la finanza e l’economia, quindi la questione sociale.
Torna in auge ciò che Luigi Ferrajoli ha definito sottosistema penale di polizia: le garanzie individuali dello stato di diritto non vigono più per marginali, stranieri e altre categorie stigmatizzate, in primis gli “oziosi e vagabondi”, per usare un lessico d’antan. Per cui, anziché colpire l’infrazione di una norma o la lesione di un bene giuridico, si sanzionano stili di vita, disoccupazione, mancanza di alloggio, in definitiva disagio sociale e povertà.
Intorno a tutto questo, da un buon numero d’anni si è determinato in Italia un certo consenso tra destra e sinistra, ma mai come in questa fase è apparsa così palese la sostanziale identità di vedute.
Un esempio lampante è costituito dal Patto di sicurezza metropolitana stretto dai sindaci di Padova, Venezia e Treviso, contro “accattoni molesti o petulanti”, contro il “racket dell’accattonaggio e per la sicurezza dei cittadini”. Stiamo citando Giovanni Manildo, sindaco di Treviso, avvocato cattolico al quale né la fede né il diritto, ancor meno l’appartenenza al Pd, hanno insegnato a prendersi cura dei cittadini più sfortunati. In modo analogo si esprimono gli altri due sindaci, quello di Padova, Guido Rossi, un ex Dp, oggi Pd, e Giorgio Orsoni, giurista e del Pd pure lui. Tutti e tre reclamano una banca–dati relativa ai tre comuni “per riconoscere subito i professionisti dell’elemosina” (è l’ex Dp che parla) nonché fogli di via ed espulsioni dal territorio nazionale. Tutto ciò per sconfiggere il pericoloso esercito di “accattoni abituali”, costituito da poche decine di persone, come loro stessi ammettono.
Gentilini e gli altri forcaioli leghisti non sono passati invano. Finora mancano le ronde, ma lo stile è quello, le retoriche del tutto simili, identico lo scopo: additare e colpire il capro espiatorio più facile e in tal modo distrarre l’attenzione dei cittadini dalla drammaticità della questione sociale e dall’inconsistenza dell’operato delle loro amministrazioni, che in due casi, Treviso e Padova, includono anche Sel.
La stessa finalità si può intravvedere dietro il proliferare d’iniziative sicuritarie in altre città italiane. Anche Firenze, che non è nuova a tal genere d’imprese (ricordate la gloriosa campagna del 2007 contro il “racket dei lavavetri”?), si è dotata di una task force con lo scopo di fare pulizia etnica nella stazione di Santa Maria Novella: controlli serrati ai danni di “accattoni, abusivi e senzatetto” e fogli di via per persone ree di manifesta povertà. Quale reato configura, infatti, aiutare viaggiatori maldestri alle prese con le biglietterie automatiche od offrirsi di trasportare i loro bagagli in cambio di una mancia? “Sono tutti cittadini comunitari che non sempre commettono reati e dunque possiamo solo multarli e allontanarli”, si lamenta un agente della polizia ferroviaria, citato il 5 febbraio da Luca Serranò in un articolo della Repubblica più che allineato.
Non è da meno la giunta milanese, anch’essa comprendente Sel, che s’illustra per gli sgomberi d’insediamenti rom e la recente trovata di sbarrare con cancelli la strada che conduce alla “ricicleria” comunale. Scopo dichiarato è impedire ai rom di attendere le auto di chi porta a smaltire i rifiuti per procurarsi oggetti da riciclare e vendere. Mentre si parla di decrescita e di obsolescenza programmata delle merci, si finge d’ignorare che l’attività di recupero e riutilizzo dei rifiuti svolta dai rom configura “una pratica virtuosa” e “oggettivamente ambientalista”, per citare Aleramo Virgili, della Rete nazionale operatori dell’usato.
Quanto alla Capitale, non si può dire che la giunta Marino si distingua per netta inversione di tendenza. Di recente Amnesty International è tornata a denunciare la sostanziale perpetuazione del famigerato Piano nomadi, la politica degli sgomberi forzati dei campi detti abusivi, la segregazione etnica in insediamenti privi del minimo comfort, l’esclusione dei rom dall’edilizia residenziale pubblica, la repressione di attività informali come i mercatini dell’usato, spesso unica fonte di reddito. Se si aggiungono le iniziative repressive ad opera di polizia e magistratura – gli sgomberi di decine di occupazioni e le misure cautelari inflitte ad attivisti/e del movimento per il diritto all’abitare –, si può avere un’idea di quale sia a Roma l’offensiva contro le “classi pericolose”.
A sancire questa tendenza, un’iniziativa governativa recente: il cosiddetto Piano casa, approvato dal consiglio dei ministri, in forma di decreto, il 12 marzo scorso. Quest’insieme di misure, presentate come la soluzione alla questione abitativa, contiene un articolo perfido, il 5, che stabilisce l’assoluto divieto, anche retroattivo, di concedere residenze e allacci delle utenze agli occupanti abusivi. Il che interdice di accedere al servizio sanitario nazionale, d’iscrivere i figli a scuola, di esercitare il diritto di voto e così via. Il primo ad applicarlo è stato il Comune di Parma, governata da un sindaco e una giunta a 5 Stelle, che s’erano presentati come nemici della speculazione edilizia e strenui difensori dei più deboli.
A ben riflettere, i professionisti della società disciplinare danno prova di autolesionismo e sconsideratezza, poiché reprimono non forme di sovversione, ma di mutualismo e di Welfare auto–organizzato, in fondo. Quelle che per ora impediscono che la disperazione sociale esploda in conflitti violenti e generalizzati o in suicidi di massa alla Jonestown.
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