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La sinistra Pd: «Vittoria anche nostra»

La sinistra Pd: «Vittoria anche nostra»Stefano Fassina e Pierluigi Bersani

Democrack «Scampato pericolo, non è un nome del patto del Nazareno», la minoranza Pd si ricompatta. Rosy Bindi: «Sergio è il nostro candidato da sempre». Anche Vendola dice sì: «Una figura limpida». Ma alle prime tre votazioni Sel scrive Luciana Castellina. Solo Civati fuori dal coro: non capisco perché non votiamo Prodi

Pubblicato quasi 10 anni faEdizione del 30 gennaio 2015

La faccia di Bersani in Transatlantico, quel sorriso largo e triste che racconta di tante battaglie e molte sconfitte, stavolta dice «vittoria». Sergio Mattarella era uno dei suoi candidati nel 2013. Poi è andata come è andata. Oggi Bersani fa un bel gesto di devozione alla ditta: «Questo lo devono anche a me i grandi elettori: di metterci questa volta lealtà e responsabilità e assicurare un Pd al servizio del Paese e all’altezza dei suoi compiti. Me lo devono un po’, no?». Ma stavolta non c’è bisogno di appelli. La minoranza Pd in (quasi) tutte le sue sfumature, dopo le tre votazioni con scheda bianca, voterà compattamente il candidato proposto da Renzi ma anche un po’ suo. «Win win», dice Alfredo D’Attorre, nella partita del Colle nel Pd vincono tutti. Mercoledì il premier ha invitato il predecessore a Palazzo Chigi per dimostrare la volontà di condividere le responsabilità del delicato passaggio. Del resto il Pd deve riscattarsi dell’episodio dei 101, non c’è altra strada che assicurarsi il sì delle minoranze. Bersani gioca in squadra. «Ha lavorato molto per la causa», spiega chi ci ha parlato in queste ore. Ma tutti rivendicano la loro parte. «Abbiamo fatto incontri veri, ci siamo resi conto su Mattarella si realizzava la massima condivisione nel Pd, e da lì siamo partiti», spiega il presidente Matteo Orfini. Il ministro Andrea Orlando non fa mistero che avrebbe votato volentieri Giuliano Amato, «ma Mattarella è un’ottima scelta».

Nel Transatlantico formato autobus all’ora di punta, dove vanno e vengono i 1009 grandi elettori e altrettanti cronisti e portaborse, le facce più sorridenti sono quelle della minoranza Pd. Il presidente che sta per essere eletto – in questi casi bisogna stare in guardia fino alla fine perché «manca sempre l’ultimo voto» spiega il senatore Naccarato – non è un ex ds ma è una personalità molto stimata e soprattutto non porta le stimmate del Patto del Nazareno. Se fosse andata diversamente sarebbe stata certificata l’irrilevanza delle minoranze nel nuovo partito di Renzi. Scampato pericolo. Solo Civati non si dà pace: «Mattarella è un diversivo, il patto del Nazareno non è finito, se no andremmo a votare domani. Io voto Prodi. Nessuno mi spiega perché non lo votiamo, visto che sul suo nome c’era una larga convergenza.». Ma è l’unico fuori dal coro dei felici e contenti. «Mattarella? Quand’era direttore del Popolo faceva titoli più forti di quelli del manifesto. Puntavamo su lui da tempo. È anche un risarcimento a tutte le vittime di mafia», dice Rosy Bindi. Stefano Fassina taglia il Transatlantico più volte – questo è già un segno, di solito svicola nei corridoi laterali – esibendo un sorriso inedito, e non è per la vittoria di Tsipras. A chi gli chiede di Renzi: «È stato bravissimo». Alfredo D’Attorre racconta: «Quando stamattina ha parlato di centralità della costituzione, di storia collettiva, di comunità, insomma, ha fatto un bel discorso». Scoppia la pace? «Magari Renzi magari ascoltasse sempre tutti come stavolta. Adesso ricominciamo a discutere nel partito», dice Francesco Boccia, altro irriducibile non-renziano. All’assemblea dei grandi elettori, quando Renzi fa il nome del giudice costituzionale scatta un applauso lunghissimo. Ma era andata così anche con Prodi. «Questa volta il clima è molto diverso», ragiona Enrico Letta, anche lui per la prima volta da un anno si intrattiene con i cronisti. Stavolta, assicura, «riusciremo a fare una cosa che non riuscimmo a fare due anni fa e questo è il segno che la legislatura si è evoluta».

Renzi, per la prima volta nella sua carriera di leader, unisce tutte le tribù della sinistra. Non può fare diversamente: l’Italicum, la «manina» sul decreto fiscale, la sua immagine si è troppo sbilanciata sul patto con Berlusconi. Deve riconciliarsi con una parte del paese, la sinistra, in teoria sarebbe la sua parte. Mattarella ha la biografia perfetta per la «narrazione» di chi vuole (far vedere che) prende le distanze dal cavaliere, Mattarella è «uomo della legalità, della battaglia contro le mafie», dice ai grandi elettori, «difensore della Costituzione che non significa imporne l’intangibilità», «autorevole e in grado di dire, con la schiena dritta, dei no se necessario anche a coloro i quali lo hanno indicato», «uno dei pochi democristiani che si è dimesso, e non è da tutti» e qui stiamo parlando della legge Mammì, anno 1990, governo Andreotti, la madre delle leggi ad personam a favore delle tv di Berlusconi.

Prima di chiudere sul nome di Mattarella Renzi sente anche Nichi Vendola, per essere sicuro che arriveranno voti anche da quella parte. Da quella parte c’è chi si aspetta una mossa falsa del premier. Vendola parla con Gianni Cuperlo, poi scioglie la riserva: se il Pd presenterà il nome di Mattarella sarà sì, «si tratta di una figura limpida sul piano morale e politico e perché l’immagine di Mattarella non è minimamente sovrapponibile al patto del Nazareno che era il cuore della nostra battaglia». Alle prime tre votazioni però Sel voterà la sua candidata di bandiera: Luciana Castellina, fondatrice del manifesto, donna simbolo della sinistra, oggi madre nobile dell’area che si ispira a Alexis Tsipras. Ieri, alla prima votazione prende 34, due in più di quelli che Sel si aspetta.

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