Cultura

La sinistra ammaliata dal mercato

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Saggi Un’analisi del New Labour di Tony Blair. L’incerta eredità di un’esperienza che ha aderito allo «spirito nuovo» della globalizzazione. Una chance per un partito che individuava nel governo la sua fonte di legittimazione

Pubblicato quasi 10 anni faEdizione del 15 gennaio 2015

Matteo Renzi è un B&B. Sta esattamente nella metà di una ipotetica linea continua che abbia, ai suoi due capi estremi, Berlusconi e Blair. Peraltro, riguardo alle reciprocità tra questi ultimi due non si nutrivano troppi dubbi. Entrambi hanno concorso ad un obiettivo, raggiungendolo in pieno: svuotare le culture politiche d’origine e sostituirvi una mucillagine di suggestioni, a tratti populista. Del mutamento globale in atto nelle società a sviluppo avanzato, peraltro, non sono causa ma effetto, non male bensì sintomo. Che si prolungano, l’uno e l’altro, al di là di ogni ragionevole sopportazione. Dopo di che, lasciando da parte le vicende di casa nostra, è interessante spostare il fuoco dell’attenzione su qualcosa che si è già consumato e che tuttavia rimane come un tracciato ineludibile. Le fortune del partito di Tony Blair ritornano in un volume di grande interesse qual è quello firmato da Florence Faucher e Patrick Le Galès, L’esperienza del New Labour. Un’analisi critica della politica e delle politiche (Franco Angeli, pp. 192, euro 25). In fondo è già tempo di farne la storia, ricostruendone il profilo sociologico e l’imprinting ideologico. Perché il lascito e l’eco della sua impostazione ritorna nelle vicende odierne.

Gli spunti sono quindi molteplici. Dalla lettura del percorso neolaburista, infatti, si colgono gli aspetti di lungo corso dell’egemonia culturale della società di mercato e degli effetti dei processi di governo post-democratici. Tre sono i tracciati a partire dai quali gli autori articolano le loro riflessioni. Il primo è il convincimento, diffuso nella leadership di Blair, che si sia pervenuti ad un «nuovo tempo», quello della globalizzazione, dove gli indirizzi di fondo dei grandi processi macroeconomici, nonché i loro riflessi sociali, siano non solo non governabili politicamente ma che incorporino in sé un’ineluttabilità per molti aspetti positiva. Da ciò, quindi, l’idea che qualsiasi impianto riformista possa misurarsi solo con gli effetti di tali trend, mai con le cause, e che debba agire sui destinatari passivi del mutamento, la società stessa, e non sugli agenti attivi, i centri di potere.

Ideologia utilitarista

Il secondo elemento rimanda all’avversione verso i corpi intermedi, ossia i soggetti della rappresentanza e della mediazione, a favore invece di un rapporto diretto tra decisore e cittadino, quest’ultimo inteso come un consumatore. A ciò si riconnette una sostanziale indifferenza, se non la deliberata diffidenza, verso qualsiasi idea di società che non corrisponda alle proprie immagini ideologiche. Di qui al passo che considera la società medesima come un vincolo, e non una risorsa, nel nome del microcomunitarismo e dell’individualismo più puri, la distanza è breve e si sposa con la concezione utilitarista, che vede nelle collettività un ostacolo al raggiungimento degli obiettivi del singolo. Tuttavia, da ciò non è derivata una contrazione del ruolo dello Stato ma, piuttosto, una ridefinizione, in chiave fortemente restrittiva, della sfera della partecipazione politica. Quest’ultima, infatti, sempre più spesso è stata occupata dai professionisti della comunicazione.

L’ossessione per l’immagine di sé ha quindi scavalcato e offuscato la capacità stessa di produrre un immaginario pubblico. Il terzo fattore è dettato dal centrismo come atteggiamento mentale, prima ancora che per la sua natura di collocazione nel quadro politico. Nel momento stesso in cui si ponevano le premesse della sua crisi in tutto il continente europeo, un’indistinta idea di «classe media» veniva identificata come l’approdo obbligato per ciò che restava del laburismo. Forse è stato questo l’errore più clamoroso, derivante dall’incapacità di cogliere l’effetto delle politica liberiste, destinate semmai a polarizzare le differenze sociali ed economiche. Ma di queste ultime, gli uomini di Blair avevano sposato più aspetti, confondendo il discorso sulla «meritocrazia» con le pratiche acquisitive, e predatorie, dei mercati finanziari, nonché ritenendo che la cittadinanza fosse sempre più spesso una variabile dipendente dalla capacità di consumo, eletta a vero e proprio indice dell’integrazione e della coesione sociale.

Il popolo sovrano, in piena sintonia con l’approccio populista, si è quindi trasformato in popolo-elettore, destinato a plebiscitare le intuizioni delle élite e del leader. All’interno del partito di Blair, come sta avvenendo oggi nel Pd di Matteo Renzi, la modernizzazione si è pertanto orientata essenzialmente verso tre esiti: la guerra intergenerazionale dei «giovani» contro le vecchie oligarchie, ottenendo un effetto di alternanza dei primi, costituitisi come ceto, alle seconde; una velocizzazione della comunicazione politica, qualcosa al limite della frenesia, che ha assorbito gli stessi contenuti delle peraltro fragili proposte di riforma, sostituendosi infine ad essi; la ricerca, ai limiti dell’esasperazione, della disintermediazione, ossia della rescissione dei rapporti con l’ampio arcipelago di organismi del collateralismo, a partire dai sindacati, identificando nell’esecutivo l’autentico ed unico soggetto politico in grado di decidere, indipendentemente da qualsiasi concertazione, quest’ultima giudicata solo come potere di ricatto o comunque di improprio condizionamento.

Sul versante degli equilibri sociali ne è derivata un’inedita miscela tra enfatizzazione del «mercato» come luogo delle libertà concrete e centralizzazione del comando politico. Al discorso sull’equità e sulla giustizia redistributiva si è così alternato, e poi sovrapposto, quello sul binomio tra efficacia ed efficienza, in una visione tecnocratica che, a ben vedere, ha concorso attivamente nel mettere in difficoltà lo stesso ceto dirigente neolaburista, ancorato sempre più spesso a parametri di valutazione derivati dall’economia marginalista e neoclassica, avulsi dalla concretezza dei problemi e dalla specificità degli interessi in gioco.

Scivolose semplificazioni

La nozione di conflitto sociale si è però dissolta, celebrata come un residuo del tempo che fu, venendo quindi sostituita dalla negoziazione e dal contratto tra utenti e fornitori. La stessa idea di «impresa» ha ricalcato questo modulo esclusivo di scambio, tralasciando del tutto l’articolazione e la stratificazione delle molteplici forme della produzione, così come dell’identità di produttori e imprenditori. Ciò che resta dell’esperienza del New Labour è la scivolosa fascinosità delle semplificazioni, al limite della banalizzazione, della complessità dei percorsi di mutamento sociale.

Rispetto al difetto di prodotto finale la sua leadership, peraltro ben presto in crisi di legittimazione davanti all’elettorato, che non ha tardato a cogliere i limiti della sua seduzione, ha schiacciato il tasto del processo e dell’immaginario come vero nucleo dell’azione politica. In altre parole, il movimento è tutto. Peccato che dentro di esso vi siano solo dei fantasmi, che pur continuano a girare per l’Europa, trovando chi ne accredita un’inesistente tangibilità.

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