ExtraTerrestre

«La Sicilia malata di petrolchimico»

«La Sicilia malata di petrolchimico»

Intervista Tra Augusta e Siracusa si trova la costa più inquinata di tutta l’isola. Intervista a Fabio Lo Verso, autore del libro «Il mare color veleno», la lunga storia dimenticata di una devastazione ambientale che ammala e uccide

Pubblicato più di un anno faEdizione del 22 giugno 2023

Tra Augusta e Siracusa si trova la costa più inquinata della Sicilia. In pochi chilometri di superficie, una trentina, si concentrano quantità elevatissime di sostanze chimiche tossiche ignorate per anni che ora contaminano ogni matrice ambientale, suolo, aria, acqua, e compromettono la salute degli abitanti. E’ il risultato della presenza del più grande polo petrolchimico d’Italia, il secondo d’Europa, i cui veleni hanno fluito indisturbati per oltre mezzo secolo in assenza di controlli e indagini. Un disastro immane quanto silenzioso a cui dà finalmente voce il libro inchiesta Il mare color veleno del giornalista Fabio Lo Verso che, con le foto di Alberto Campi, restituisce tutta la tragicità di una vicenda troppo poco conosciuta.

Che cosa rende la vicenda del petrolchimico di Siracusa uno dei più grandi disastri ambientali del paese? Fino a dove si spinge l’inquinamento provocato dal complesso industriale?

Si è spinto oltre ogni immaginazione. Un solo esempio: nelle acque della rada di Augusta, una cittadina a circa trenta chilometri a nord di Siracusa, le fabbriche hanno impunemente sversato una quantità demenziale di sostanze tossiche di ogni tipo – mercurio, piombo, idrocarburi pesanti, esaclorobenzene e policlorobifenili. Mescolandosi con i fondali hanno formato un impasto tossico gigantesco. Se fosse calcestruzzo, si potrebbero costruire circa tremila palazzi di sei piani ciascuno. Una città di ottantamila abitanti, il doppio della popolazione della stessa Augusta. Ma oltre la rada, l’inquinamento si è insinuato dappertutto. Ha pervaso il suolo e il sottosuolo, i pozzi d’acqua e anche l’aria, con le realtà correlate delle morti per tumore e delle malformazioni congenite. Un disastro che perdura da sette decenni.

Quale intreccio di responsabilità ha portato a un disastro di tali proporzioni?

L’industria si è insediata nel dopoguerra in questa fetta di litorale siciliano fra Augusta e Siracusa con la promessa di prosperità e di benessere, ha strappato migliaia di famiglie dalla miseria e la politica locale, grata, gli ha consegnato le chiavi della stanza dei bottoni. Con il plauso anche della cittadinanza abbagliata dal Titanic dell’industria che traghettava quella povera gente verso le sponde della modernità, la bustapaga, la Cinquecento e il panettone aziendale. Da quel momento le fabbriche hanno avuto la libertà di fare quello che gli pareva. A Roma, in questi anni, hanno chiuso un occhio, e l’altro pure. Qui si raffina circa il 25% del carburante italiano, il polo petrolchimico siracusano svolge una funzione di interesse strategico nazionale.

Quali le conseguenze sulla popolazione?

La popolazione è esasperata dalle continue esalazioni di miasmi industriali e subisce danni alla salute più che altrove. Ricoveri e morti per cancro, con l’incidenza più alta fra le regioni del Sud, comprese le isole. Ma la peggiore conseguenza è questa, e riguarda appunto il rischio di sviluppare un tumore: oggi non c’è più una differenza fra un individuo che sta a casa tutto il giorno e un operaio che invece passa otto ore al giorno al contatto con le sostanze cancerogene. Il rischio è lo stesso. Il territorio è talmente intriso di inquinanti, è come se la gente vivesse dentro una fabbrica di prodotti nocivi grande quanto il territorio in cui vivono. Questa allucinante conclusione è stata sancita da uno studio scientifico su dati ventennali, e quindi inoppugnabili, pubblicato nell’ottobre del 2019.

Come si è svolta l’ inchiesta?

In due fasi. Nell’arco di un paio di anni, ho letto il malloppo di studi scientifici, atti parlamentari, articoli di giornali, ho studiato tutto ciò che si è mosso sullo sfondo di questa storia ancor troppo poco conosciuta. Successivamente mi sono recato più volte sul territorio. Ho ascoltato i racconti dei personaggi che oggi portano sulle loro spalle il peso del disastro, e di quelli che invece se lo sono scrollato di dosso. In tutto l’inchiesta è durata circa quattro anni, compresa la redazione del libro, ed è stata realizzata a spese mie, anzi nostre: con me c’era il fotogiornalista Alberto Campi che ha corredato il volume con alcune sue splendide, e tragiche, fotografie.

La vicenda del petrolchimico di Siracusa ricorda molto quella delle acciaierie ex-Ilva, ma ha avuto molta meno visibilità. Tu stesso racconti che anche gli abitanti del territorio sono spesso ignari. Qual è il motivo della silenziosità di questo disastro?

Il motivo è che la gente ha paura, quando ti dice che senza le fabbriche non c’è lavoro e si muore di fame, vuol dire che l’industria è padrona del futuro dei lavoratori. Il fenomeno si contempla nello slogan «meglio morire di cancro che di fame», a cui la popolazione si è convertita senza remissione, azzerando nelle menti qualsiasi idea di contrasto al dilagare dell’inquinamento. Ma se il dramma di questo scorcio di Sicilia ha avuto molta meno visibilità, è perché qui non è ancora avvenuto quel ciclo giudiziario, contrassegnato da condanne eccellenti, ora in attesa di un verdetto definitivo, che ha proiettato la vicenda dell’ex-Ilvasullo schermo dell’attualità nazionale. A Siracusa, il primo e unico processo è stato aperto nel 2021 contro quattro industrie, con l’accusa di non aver adeguato gli impianti alle norme ambientali. Mentre un altro processo scatterà contro i responsabili del depuratore industriale che in quarant’anni, secondo gli inquirenti, non ha smaltito nemmeno un chilo di fanghi e reflui nocivi. Si parlerà, molto, nei prossimi anni del petrolchimico di Siracusa.

Sono previsti interventi di bonifica?

Ufficialmente soltanto un intervento, e riguarda proprio la rada di Augusta, la madre di tutte le bonifiche ambientali siciliane. Il decreto è stato emanato dal governo nella primavera del 2021, dopo trent’anni di traversie, affossamenti e altre peripezie. Si tratta di un intervento colossale, che sarà ultimato fra venti o trent’anni. Una prospettiva alla quale però la gente non guarda quasi più. Troppi anni di disillusioni insegnano a non coltivare speranze. Nel resto del territorio, in cinquant’anni, di bonifica ne è stata portata a termine soltanto una, quella di una parte di una penisola colma di polveri tossiche. Di una parte, nemmeno di tutta l’area contaminata. Con simili credenziali, si chiede la gente, si può ancora affidare alle sole autorità il destino di questo territorio martoriato?

I consigli di mema

Gli articoli dall'Archivio per approfondire questo argomento