Come un merletto di silenzi. Così, solo molti anni dopo – accolta dallo sguardo di una regista – avrebbe definito le pause tra le parole e tra le frasi, che aveva sentito di ricamare fra le testimonianze dei sopravvissuti ai campi di sterminio, quando montava Shoah di Claude Lanzmann.
Perché se a volte a lei era sembrato di annegare in quelle trecentocinquanta ore di girato, se ascoltare da sola diventava insostenibile al punto da chiamare la sua assistente a vedere con lei, così per chi guarda dovevano esserci respiri. Per non essere sopraffatti e per non voler lasciare la sala.

Quasi sei anni della sua vita. Dal ’79 all’’85 non ci sarebbe stato che quello studio a Saint-Cloud, il riavvolgersi straniante dei suoni di quelle voci sul limitare dell’indicibile: sala di montaggio come seconda caverna di Platone, dove – per un atavico copione, senza clamore – una donna e per di più nata in Israele da famiglia ebrea e poi emigrata a Parigi senza aver mai indagato, prima di allora, i crocevia tra le sue radici e l’Olocausto, si sarebbe misurata coi confini ultimi del montaggio e con le frontiere stesse del conoscere.
Per fortuna, grazie al documentario di Catherine Hébert – alla 18sima edizione delle Giornate del Cinema Quebecchese in Italia, guidate da Joe Balass e su MYmovies fino al 31 marzo – Ziva Postec: la monteuse derrière le film Shoah sarebbe affiorata dal rimosso della storia del cinema.

Così eccola, in un filmato dell’epoca: le mani tra nugoli di pellicola stelle filanti, il corpo tutt’uno con la postazione della moviola; bruna, occhiali, sigaretta e lo sguardo rapito dallo schermo in penombra.
Ma il film di Hébert muove da quei sei abissali anni per protendersi verso l’arco della vita di Ziva, in un disvelarsi di piani e di epoche, immagini in fuga dal finestrino di un treno, verso i campi o per Saint-Cloud, nel costante junghiano risuonare tra Shoah, bene immateriale e fisico (con le bobine preservate allo Shapell Center Museum e con gli extra esclusi dal montaggio finale di nove ore e mezza, cuore inestimabile di Ziva Postec), e l’esistenza di lei, la sua arte.

C’è una sua foto da bambina – cinque anni a fine guerra e ancora lo stesso sorriso: lucida la menorah lasciatale dalla madre e la ricorda piangere i fratelli sterminati in Europa. Non ci sono risposte alle sue domande infantili, ha paura davanti alla magrezza dei rifugiati. Ma c’è l’amore per il cinema: a 19 anni un amico le propone il montaggio, non sa cosa sia e scopre che «si può fare tutto!» (lavorerà con Tati, Resnais, Welles), mentre cresce il desiderio di evadere dal clima del suo Paese.

A Parigi conosce «solo» La Coupole, dove si incontrano Sartre e de Beauvoir (amici di Lanzmann). E sposa Robert Postec, autore in ambito teatrale. Ma nel ’64, in Israele per lavoro, lui muore in mare, davanti a lei, sulla riva, incinta di sette mesi. Alla morgue, toccandolo, Ziva cercherà di convincersi che è vero, e tornerà a Parigi, perché il suo Paese «le ha rubato il suo amore». Un mese dopo nascerà la figlia.

Tutto il racconto in voice over sarà un’unica immagine del sole inghiottito dal buio. Lei rischierà lo stesso con Shoah. Non ha idea di come montarlo, ed è così anche per Lanzmann. Un giorno lui le chiede: «Ziva, secondo te, su che cosa è il film?» E lei, senza riflettere: sulla morte…. disseziona il processo di questa macchina di morte.

Così emerge inoppugnabile l’autorialità del suo ruolo: «Il documentario è una creazione al montaggio, molto più che la finzione». Ancor più vale in Shoah. Tanto che quando incredibilmente lei resta senza footage («non posso montare un film di interviste»), con autorevolezza induce un riluttante Lanzmann a tornare a Treblinka. Ma lì non ci sono che macerie… E lei: allora riprendi macerie. Così arriva il presente dei luoghi ischeletriti nel fuoricampo dell’immaginario di un’autrice che in Israele scopre le sue dediche di bambina a se stessa dietro le foto degli zii trucidati dai nazisti.

Il film dispiega dunque il ventaglio profondo del suo rapporto con Lanzmann, che definisce geniale giornalista (dirige Les temps modernes fino alla morte nel 2018). Li unisce la stessa follia, qualcosa di più grande di loro: quando lei dice che non può più impegnare una goccia di forza interiore, lui concorda e chiude lì. A volte invece sceglie di non rispondergli al telefono per giorni.

Shoah per lei è come «né con te né senza di te». Ha avuto paura di morire prima di finirlo, ha sentito che lo avrebbe finito comunque, anche se poi racconta triste di aver trascurato la figlia adolescente che era andata via. Senza il film si era ammalata, poi aveva sentito il richiamo del suo Paese, tunnel interiori che si ricongiungevano. Lì oggi fa la regista, coltiva fiori, cammina al tramonto sulla spiaggia. Ecco: le sue note, scritte ai tempi per orientarsi nel mare infinito delle riprese di Lanzmann, scivolano su quella barca, nei ricordi di Srebnik: costretto dai nazisti a cantare mentre uccidevano la gente, il cuore gli piangeva. La memoria le dà anche requie, ma quei nomi risuonano ancora e ancora dentro di lei, in ciò che ha montato, in ciò che è rimasto fuori.