Non si tratta solo del racconto della partita a scacchi del XX secolo o di una delle sfide più epiche e mitizzate tra due individui, il russo Boris Spasskij e l’americano Bobby Fisher, a loro volta, simboli di molto altro (la politica, il modus vivendi, la visione del mondo, il mondo stesso). È qualcosa di più sottile, complesso, delicato, tra il romanzo, il saggio, il memoir.
Il quarantenne Alessandro Barbaglia, al settimo libro, svela indubbiamente non tanto aneddoti o retroscena (già individuati in molti altri testi su entrambi gli sfidanti), quanto piuttosto l’ansia, la frenesia, il mistero, il percorso che stanno prima, durante e dopo il fatidico match: e lo svelamento viene espresso in un crescendo di attese, come pure di fermi-immagine che informano su percorsi e contesti mediante una prosa secca da romanziere storico contemporaneo, ma con un approccio ben diverso, nella fabula e nell’intreccio, dagli studiosi del precedente XX secolo, dove si svolge la vicenda.

«LA MOSSA DEL MATTO» (Strade Blue, Mondadori, pp. 187, euro 19,00) però va oltre la Storia con la «s» maiuscola, per farsi epicamente «L’Iliade di Bobby Fischer», come avverte una sorta di sopratitolo in copertina, esaltando il face-to-face tra il nevrotico americano e l’impassibile russo Boris Spasskij.

Superando altresì l’idea di un novello libro omerico, il testo di Barbaglia si interseca, poi, con l’autobiografia familiare, sino a formare un trittico più o meno idealistico, ovvero una specie di «tre romanzi in uno», dove però il primo (gli scacchisti) entrano nel secondo (gli eroi greci) e nel terzo (i Barbaglia). Ecco, in altre parole, cosa fa l’autore: per meglio spiegare i risvolti spesso assurdi dell’agone tra Bobby e Boris, li paragona ai due fondamentali personaggi dell’antico poema: Achille/Fisher e Ulisse/Spasskiji, ovvero la forza bruta contro l’astuzia razionale, il coraggio geniale e spassionato in barba all’atteggiamento moderato e ingannatore.

E le analogie con cui vengono ritratti i quattro combattenti, piegate al discorso affabulatorio, sono davvero raffinate e corroboranti: ma tutto questo sforzo narrativo – autentico impegno artistico-culturologico – viene per così dire messo di fronte a una confessione personale che da privata (sempre nascosta) diventa pubblica (ora condivisa): è il Barbaglia commosso (e commovente) che vuole, deve, può finalmente confrontarsi con la memoria del padre (celebre psichiatra, morto di malattia a soli quarantadue anni, l’età attuale dello scrittore), partendo da un episodio in apparenza marginale: il bimbo che, sotto il tavolo, in giardino, ascolta il genitore e i paterni colleghi, discutere appunto dell’incontro Fisher/Spasskij , ormai a un ventennio di distanza.

ED È FORSE IL RICORDO di quegli istanti, oltre il mezzo secolo di una distanza storica (oggi abissale, per un romanziere nato otto anni dopo la partita tenutesi tra l’agosto e il settembre 1972 a Reykjavik, in Islanda) a spronare Barbaglia in una romantica proustiana recerche, esterna al proprio vissuto, ma facente parte ormai di quei miti d’oggi che Roland Barthes magari avrebbe volentieri inserito tra i prodotti genuini dell’immaginario pop di un tardo Novecento, che, per molta narrativa italiana, forse tarda a concludersi definitivamente.