La sfida persistente della lettura nell’età dello smartphone
Scaffale «Cervelli anfibi, orecchie e digitale» di Giovanni Solimine, edito da Aras. La presentazione venerdì a Urbino nell'ambito del Festival del giornalismo culturale
Scaffale «Cervelli anfibi, orecchie e digitale» di Giovanni Solimine, edito da Aras. La presentazione venerdì a Urbino nell'ambito del Festival del giornalismo culturale
Diciamo «camminare» e più o meno sappiamo di cosa stiamo parlando: quasi senza che ce ne rendiamo conto nella nostra mente si formano immagini di piedi che procedono uno dopo l’altro, magari di bambini che muovono i primi passi o di vecchi che arrancano a fatica appoggiati a un deambulatore. Poi diciamo «leggere», e all’inizio tutto sembra ugualmente facile: un libro aperto, una testa china, forse un paio di occhiali… Ma, un attimo: non stiamo forse leggendo quando sbirciamo lo schermo del telefono perché abbiamo sentito il bip di un messaggino? O quando alla stazione consultiamo il pannello delle partenze? E quando ci immergiamo nell’ascolto dell’audiolibro di Anna Karenina, che ci penetra nelle orecchie con la voce della nostra attrice preferita, stiamo leggendo o no?
E PER COMPLICARE la questione: di cosa (anzi di chi) stiamo parlando quando parliamo di un lettore o di una lettrice? Ormai a leggere siamo capaci tutti: l’analfabetismo, che alla fine della Seconda guerra mondiale era ancora diffuso in Italia, adesso è scomparso, e sta scomparendo ovunque nel mondo – merito anche o soprattutto degli amati e odiati «furbòfoni», gli smartphone che portiamo ovunque con noi e che, ci piaccia o no, sono diventati una protesi di cui è quasi impossibile fare a meno. È grazie a loro, forse più che alla scolarizzazione di massa, se adesso, salendo su un autobus, si vedono persone con gli occhi fissi su uno schermo dove passano senza soluzione di continuità immagini e parole, e altre persone con le orecchie sigillate da auricolari dai quali si sente provenire l’eco di una voce narrante. Ma di loro si può dire che sono «lettori»?
Domanda tutt’altro che semplice, cui cerca di rispondere Giovanni Solimine in un piccolo libro, Cervelli anfibi, orecchie e digitale uscito da poco per le edizioni Aras (pp. 130, euro 14), che verrà presentato venerdì al Palazzo Ducale di Urbino nell’ambito del Festival del giornalismo culturale. Sono temi – la lettura, i lettori, il panorama editoriale italiano – che Solimine conosce molto bene e che ha già affrontato da prospettive diverse in volumi precedenti (fra gli altri, L’Italia che legge, del 2010, e Senza sapere. Il costo dell’ignoranza in Italia, del 2014, editi entrambi da Laterza), ma che qui riprende non soltanto disegnando il quadro confuso e contraddittorio che abbiamo di fronte, ma anche azzardando «esercizi di lettura futura», come recita il sottotitolo del libro.
A SORREGGERE SOLIMINE, oltre a un’esperienza e una competenza più che consolidate, c’è quello che Giorgio Zanchini nella prefazione definisce un «vigile riformismo». In altri termini, riprendendo la vecchia distinzione di Umberto Eco, potremmo dire che il punto di osservazione non è né quello di un apocalittico, che considera con orrore la «rivoluzione» del digitale (rivoluzione, peraltro, come viene sottolineato nel capitolo dedicato alle forme e ai supporti del testo, ancora largamente incompiuta), né quella di un integrato, pronto a cantare le lodi del nuovo che avanza.
Certo, Solimine non nasconde che «in quest’era di migrazione dei nostri comportamenti e dei nostri consumi culturali verso l’universo digitale» molto possa andare perduto, in particolare quella capacità di «lettura profonda» che ancora fino a venti o trent’anni fa era sinonimo di lettura tout court. Non a caso fra gli autori cui viene fatto riferimento in Cervelli anfibi, orecchie e digitale, ricorre spesso il nome della neurolinguista Maryanne Wolf che in Lettore, vieni a casa (Vita e pensiero, 2018) ha messo in luce con toni appassionati il rischio che la modalità di lettura rapida e frammentata cui ci abitua il piccolo schermo dello smartphone possa avere il sopravvento e finisca per atrofizzare i processi di lettura che richiedono più tempo e maggiore attenzione.
Come la stessa Wolf, però, Solimine è convinto che questa deriva non sia inevitabile e che vedere nell’analogico e nel digitale due entità nemiche che si escludono a vicenda sia un errore: più opportuno, invece, puntare «a una sorta di bilinguismo» – quello che la studiosa americana definisce un «cervello bi-alfabetizzato» e per Solimine è piuttosto «un cervello anfibio che cumuli le competenze e si sappia orientare con naturalezza ed eguale padronanza in condizioni ambientali diverse». Senza escludere neppure quella forma di lettura «semplificata» e «leggera» (le virgolette sono dell’autore) che ci viene offerta con l’ascolto di un audiolibro.
SE QUESTO AVVERRÀ, se davvero gli umani riusciranno a espandere i loro talenti e a non dilapidarli, saggiamente Solimine auspica, ma non necessariamente prevede, e il libro si chiude su una nuova incognita: i cambiamenti che l’intelligenza artificiale porterà (sta già portando) su quell’oggetto che chiamiamo libro e che Eco – ancora lui – sosteneva essere un’invenzione perfetta, «come il cucchiaio, il martello, la ruota, le forbici».
Con la differenza che per imparare a usare un cucchiaio o un martello, ci si mettono pochi minuti, per imparare a leggere un libro ci vuole tempo, costanza, passione. Li avremo? Li avranno gli umani dopo di noi? Forse, ma come diceva una vecchia canzone, «noi non ci saremo».
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