Pur con tutte le contraddizioni insite nella società dell’immagine, è innegabile che le fotografie – dotate di una propria agency – abbiano un ruolo fondamentale nella conoscenza e nella valorizzazione del patrimonio culturale. Basti pensare al potere che esse esercitano nella divulgazione degli scavi archeologici. Lo abbiamo visto di recente con i bronzi rinvenuti nel santuario etrusco-romano di San Casciano dei Bagni, ritratti sui più importanti quotidiani al mondo mentre riemergono dal fango; lo constatiamo periodicamente a Pompei, dove i manufatti riportati alla luce vengono accuratamente disposti in «set fotografici» di sicuro impatto mediatico. Ragion per cui parchi archeologici e musei investono sempre di più in una comunicazione basata sulle immagini. Queste, però, sono anche un mezzo documentario imprescindibile per il progresso della ricerca. Da qui la necessità di banche dati open access, sostenute in Europa dalla direttiva 2019/1024 – Public Sector Information.

NEL QUADRO della promozione del patrimonio non va inoltre sottovalutata l’influenza che monumenti, reperti archeologici e opere d’arte esercitano negli ambiti che della riproduzione di immagini si servono (cinema, design, videogame, senza tralasciare l’editoria, la pubblicità e il marketing). Ma tutto (o quasi) quello che abbiamo descritto, in Italia, ha un costo. Se infatti il decreto legge Art bonus del 2014 ha sancito finalmente la libertà di fotografare i beni culturali conservati nei musei pubblici e di diffondere le immagini per scopi non commerciali, qualsiasi altro utilizzo resta vincolato a un’autorizzazione e al pagamento di un canone. Una disposizione che si regge sull’ambiguità degli articoli 107 e 108 del Codice dei beni culturali e del paesaggio.

Quest’ultimo non solo sfida oggi la normativa europea (in particolare la direttiva comunitaria sul riuso dei dati della pubblica amministrazione e la direttiva sul copyright) ma confonde la materialità dei beni mobili e immobili con l’immaterialità della loro riproduzione, usi «rivali» con usi «non rivali», per cui una corresponsione di natura economica appare ingiustificata. Il limite del lucro al libero uso dell’immagine del bene culturale pubblico è il vero nodo del dibattito attuale. All’insensatezza di questa norma, che rappresenta un unicum in tutto il mondo, si sono appellati gli studiosi che da una decina di anni portano avanti la battaglia per la liberalizzazione dell’utilizzo delle immagini dei beni culturali. Il volume Le immagini del patrimonio culturale. Un’eredità condivisa? (Pacini editore, pp. 193, euro 23), a cura di Daniele Manacorda e Mirco Modolo, nel pubblicare gli atti di un convegno organizzato a Firenze l’11 giugno 2022 dalla Fondazione Aglaia, dà conto delle lunghe e approfondite discussioni attorno a questo tema.

William-Adolphe Bouguereau, «Rest» Cleveland Museum of Art (Usa) Open Acces

UN DIBATTITO che – come ricorda Modolo – in Italia ha radici nel lontano 1892, quando per la prima volta il ministro della Pubblica istruzione Pasquale Villari tentò, allora invano, di sottoporre a tariffa le riproduzioni di antichità e belle arti scatenando le ire delle Camere di commercio, della Società fotografica Alinari e persino del ministro dell’Agricoltura, industria e commercio.

L’interesse del libro risiede nell’interdisciplinarietà degli interventi, a firma di archeologi, giuristi, designer nel mondo dell’editoria o dei videogame. Le osservazioni e le idee messe in campo sono molte e talvolta divergenti (all’esperienza della banca dati open access del Museo Egizio di Torino si contrappone, ad esempio, il punto di vista della direttrice della Fondazione Alinari sullo sfruttamento economico dei beni materiali e immateriali del celebre archivio fotografico toscano). La questione principale, sulla quale insistono Giorgio Resta e lo stesso Manacorda, concerne la proprietà «demaniale» applicata inopportunamente alle riproduzioni di beni pubblici. Le immagini, infatti, non possiedono fisicità e in quanto oggetti immateriali «costituiscono una fonte condivisa di conoscenza, ricordo, identità, creatività».

È chiaro, quindi, che qualsiasi ostacolo di natura economica, amministrativa o culturale sull’uso dell’immagine impedisce a essa di esprimere tutto il suo potenziale, polverizzando il concetto di «pubblico dominio»: mentre infatti siamo liberi di ripubblicare i testi di Manzoni o di riutilizzare, per qualsiasi scopo, le note dell’inno di Mameli, non possiamo godere della stessa libertà con la riproduzione dello spartito originale conservato nel Museo del Risorgimento di Genova, solo perché quel manoscritto è un bene culturale pubblico che, in quanto tale, soggiace ai limiti imposti dal Codice. Ciò accade mentre un numero crescente di istituti in tutto il mondo sceglie di pubblicare online immagini ad alta risoluzione con licenze open access, che prevedono la più completa libertà di riutilizzo.

IL RISCHIO è che – a lungo andare – editori, grafici e designer preferiscano ricorrere a immagini di opere (anche di artisti italiani) conservate all’estero, a detrimento del patrimonio culturale «nazionale» e a dispetto di chi ne sottolinea e ne magnifica di continuo il valore «identitario».

A peggiorare e complicare le cose è arrivato inaspettatamente anche il decreto ministeriale 161 dell’11 aprile 2023 (che il libro non ha potuto prendere in considerazione), il quale ha indiscriminatamente esteso il canone alla pubblicazione di immagini in qualunque prodotto editoriale diffuso per via commerciale (finora, il balzello si limitava generalmente alle monografie stampate in più di 2000 copie e col prezzo di copertina superiore ai 70 euro). Contestato di recente dalla Corte dei Conti, che lo ha giudicato anacronistico e palesemente antieconomico (le spese per la riscossione dei crediti superano spesso gli introiti provocando un vero e proprio «danno erariale»), il decreto del ministro Sangiuliano, ideato e scritto in realtà da Antonio Leo Tarasco – attuale capo dell’ufficio legislativo del MiC – confligge infine con il riordino organico della disciplina della riproduzione espresso nel Piano nazionale di digitalizzazione (Pnd), documento elaborato dallo stesso ministero appena l’anno scorso, dopo un lungo lavoro di confronto interno ed esterno all’amministrazione.

INSOMMA, un pastrocchio che antepone il bieco imperativo di «fare cassa» alla diffusione della cultura e alla libertà di ricerca e di iniziativa economica, tuttavia sanciti dagli articoli 9, 33 e 41 della Costituzione. È ciò che hanno affermato, pochi giorni fa, anche le associazioni rappresentative dei professionisti dei musei, degli archivi e delle biblioteche (Icom, Anai e Aib) che, in una lettera congiunta, hanno invitato il ministro Sangiuliano a «rivedere integralmente il Dm 161/2023, ben al di là degli annunciati ritocchi in materia di pubblicazione, per riallinearlo ai contenuti e alla struttura delle Linee guida del Pnd (e a tutte le gratuità ivi previste) nonché di rendere vincolanti tali Linee guida».

Le associazioni Mab chiedono infine la possibile adozione di licenze open access per il rilascio di immagini di beni culturali statali. Sarà questa la volta buona che Sangiuliano e Tarasco rispondano a chi ha più volte cercato il dialogo?