Alias Domenica

La sfida di McEwan alla natura umana

La sfida di McEwan alla natura umanaRon Mueck, Man under cardigan, 1998

Interviste Lo scrittore inglese parla del suo ultimo, sofisticato balocco romanzesco, un robot dotato di coscienza, fisicamente indistinguibile da un uomo: «Macchine come me», da Einaudi

Pubblicato circa 5 anni faEdizione del 1 settembre 2019

Da qualche anno, Ian McEwan sembra sentire la propria vena romanzesca troppo sacrificata ai limiti della condizione umana: perciò, forse, per il suo penultimo libro, Nel guscio, ha immaginato un intreccio losco e criminale dal punto di vista di un non ancora uomo, un feto che nella pancia della madre ragiona impotente sulle tresche di lei per uccidere il legittimo consorte, nonché futuro padre.

E nel suo ultimo romanzo, forte delle letture scientifiche che da sempre sono la sua vera passione, lo scrittore inglese si addentra nel cervello di un androide – «l’ultimo balocco, il sogno di ogni epoca, il trionfo dell’umanità, o l’angelo che ne annunciava la morte», eroe tecnologicamente sofisticato di Macchine come me (in uscita il 3 settembre per Einaudi, brillante e intonata, al solito, la traduzione di Susanna Basso, pp. 287, e 19.50).

Acquistato a scopo di compagnia dal trentaduenne Charlie Friend, che combina gli studi antropologici con la passione per l’intelligenza artificiale, il robot è dotato di fattezze indistinguibili da quelle di un uomo, ed è stato battezzato dalla casa di produzione con il prevedibile nome di Adam. In giro per il mondo ce ne sono dodici esemplari maschili e tredici femminili (chiamati naturalmente Eve) tutti venduti in un battibaleno nonostante il loro costo esorbitante: uno di questi lo ha comprato Alan Turing, il matematico che McEwan immagina ancora vivo nell’anno 1982 in cui ambienta la sua storia, la cui cornice è in alcuni dettagli aderente alla realtà, in altri clamorosamente controfattuale. Reduce da una sanguinosa sconfitta alle isole Falkland, l’Inghilterra piange i suoi quasi tremila morti, mentre il laburista Tony Benn tiene comizi affollati di sostenitori entusiasti e si predispone, inconsapevolmente, a diventare un obiettivo dell’Ira.

Intanto, nella sua modestissima casa londinese, Charlie sfoglia il voluminoso manuale di istruzioni per avviare il nuovo costoso giocattolo e apprende con sgomento che spetta all’acquirente impostarne i parametri caratteriali: l’androide risulterà, quindi, non più il prodotto immodificabile di un destino prefabbricato, bensì la proiezione delle scelte morali di chi ne imposta la personalità.
Adam possiede già, oltre alle innumerevoli informazioni registrate nei suoi circuiti neurali, anche una coscienza, e dunque intenzionalità, una prepotente attitudine decisionale e la capacità di imparare dall’esperienza. È in attesa di un carattere.

Brillantemente messo a fuoco da McEwan attraverso una serie di apparentemente insignificanti dettagli che ne fanno il tipico ragazzo senza particolari aspirazioni, Charlie non intende assumersi l’onere morale di programmare la personalità del suo androide e perciò decide di affidare metà dell’impresa alla vicina di casa Miranda, della quale si scopre innamorato. Così, come genitori alle prese con un figlio androide da educare, i due protagonisti si avviano a una serie di avventure godibilmente escogitate dall’autore, con inserti che prevedono la tentata adozione di un bambino, l’incontro di Charlie con Turing articolato in due dialoghi cruciali, un doloroso background che motiva lo spirito vendicativo di Miranda, il tragicomico confronto con il padre di lei, che scambia il coltissimo, loquace, brillante Adam per il pretendente della figlia, e il povero Charlie per il robot.

Naturalmente, e al tempo stesso imprevedibilmente grazie alla smagliante intelligenza narrativa di McEwan, Adam diventerà l’arbitro dell’insolito triangolo familiare, guidato dalla inconfutabile logica che governa i suoi algoritmi cerebrali e tiene a bada gli altrimenti impetuosi moti del suo cuore: «Non posso cambiare i miei sentimenti» – dice a Charlie. Quelli me li devi consentire».

Insieme a «Nutshell», questo suo nuovo romanzo sembra un esercizio virtuosistico di implausibile verosimiglianza. Come mai questa virata della sua narrativa?

Ho dedicato gran parte della mia vita professionale alla costruzione, sulla pagina, della mia personale versione di una realtà plausibile e condivisa, sebbene sia consapevole del fatto che, nella finzione, il realismo è esso stesso un artificio, e di quelli molto esigenti. Effettivamente, comincio a pensare che la scrittura di Nutshell abbia rappresentato, per me, un punto di svolta: mi scopro desideroso di arrivare alla verità delle cose passando da strade diverse da quelle già esplorate.

Varcata la soglia dei settant’anni, preferisco far dipendere la mia scrittura da quel che già so piuttosto che basarla sulle mie ricerche. Il protagonista del mio prossimo libro potrebbe essere un insetto, chi lo sa? In Macchine come me mi sono preso delle libertà sia per quel che riguarda gli avvenimenti storici sia in campo scientifico. In un certo senso, escogitare una versione controfattuale del nostro passato recente è semplicemente una estensione di quanto fanno tutti i romanzieri, ovvero cercare risposte alla questione del cosa accadrebbe se… È del tutto casuale che la scienza e la tecnologia siano come sono in una determinata epoca. La rivoluzione industriale non doveva necessariamente esplodere nel Nord dell’Inghilterra nel XVIII secolo, sarebbe potuta avvenire in qualunque tempo e in qualunque luogo, a patto che ci fosse la curiosità necessaria, e – ovviamente – anche il carbone. Il presente, come dice uno dei miei personaggi, è un costrutto altamente improbabile.

Quanto al punto di avvio del mio nuovo romanzo, risale a qualcosa che avvenne molto tempo fa: erano agli inizi della carriera, quando scrissi un film per la BBC, che pescava in qualche modo nel lavoro di Alan Turing. Molto tempo prima di diventare l’eroe della crittoanalisi di Bletchey Park, decodificando i codici navali tedeschi durante la seconda guerra, Turing stava già riflettendo sulla possibilità che una macchina fosse dotata di coscienza. Mentre lavoravo sui suoi studi, sviluppai un interesse per l’intelligenza artificiale, che rimase in sottofondo durante tutti gli anni Ottanta e Novanta, anni durante i quali gli scienziati non arrivavano a capire se non quanto complessa fosse la biologia del cervello.

Poi, nel decennio successivo, l’intelligenza artificiale conobbe una rinascita, e ora influenza le nostre vite in una infinità di modi, sebbene non ancora sotto forma di androidi. Le macchine stanno cominciando a prendere decisioni al posto nostro, e sebbene noi stessi ce lo siamo fabbricato, il futuro nel quale stiamo entrando è di difficile interpretazione. Se il cambiamento climatico o la guerra nucleare non sono prospettive in grado di disgregare le nostre società, l’intelligenza artificiale ha già introdotto, invece, alterazioni fondamentali nel processo della nostra civilizzazione. Era arrivato il momento di scrivere un romanzo su come ci sentiremmo nel vivere stretto a contatto con una mente non umana.

Adam è un ribelle: fa l’amore con la fidanzata di Charlie e poi gli fa del male, violando la prima legge della robotica stabilita da Asimov. Lo ha concepito così fin dall’inizio o ne ha cambiato il carattere via via che scriveva il romanzo?

Beh, probabilmente il fatto che Adam rompa un polso al narratore è un incidente di percorso… Come tutti i miei caratteri, anche lui è cresciuto sulla pagina. Via via che i personaggi compaiono danno forma all’intreccio, e nel prendere forma l’intreccio altera il destino dei personaggi. È un ciclo continuo, e quando funziona bene per me è una delizia.

Tra gli elementi di efficacia della trama c’è anche il fatto che Miranda non nega di avere fatto l’amore con l’androide comprato dal suo povero fidanzato. Ha deciso che le avrebbe fatto dire la verità fin dall’inizio o ha cambiato idea in corso d’opera?

Ho fin da subito assegnato un ruolo centrale alla conversazione rabbiosa tra Charlie e Miranda, dopo che lei è stata a letto con Adam. Charlie si può legittimamente sentire tradito solo se è pronto a consegnare all’androide uno statuto uguale a quello di un umano. Altrimenti, come dice Miranda, fare l’amore con un robot non può essere considerato diversamente dall’usare un vibratore.

Com’è riuscito a destreggiarsi tra tutti gli appunti scientifici che le saranno stati necessari, prima di decidere quando rispettare la realtà e quando contraddirla?

Grazie al fatto che il mio interesse per l’argomento è lungamente datato, ho dovuto fare, in realtà, ben poche ricerche, e scrivere questo romanzo è stato molto piacevole. Mi sono semplicemente accomodato liberamente tra tutti i materiali accumulati e ho vissuto di rendita su quanto avevo letto e imparato lungo gli anni, facendo del mio meglio per evitare eccessivi ricorsi al linguaggio tecnico. Piuttosto, sono stato molto influenzato dai dibattiti filosofici in corso sulla natura della coscienza.

I programmatori di Adam sembrano avere risolto la controversia tra Foucault e Chomsky a proposito della natura umana. Quando i due filosofi si incontrarono a Eindhoven, avevano alle spalle una lunga tradizione secondo cui la natura umana e la condizione umana non avrebbero molto da spartire. Adam, che agisce secondo gli input dei suoi programmatori, ma al tempo stesso è un prodotto culturale che impara dall’esperienza, sembra esempilificare, in sè, il risultato del vincolo ineludibile fra biologia e storia…

Non è un caso se Foucault e Chomsky non si accordarono, a mio avviso erano di fronte a una dicotomia fallace e, com’è noto, la questione era mal posta. Ovviamente il nostro cervello è il prodotto di una lunga evoluzione, e la natura umana così come l’abbiamo fatta sviluppare è potentemente condizionata dalla nostra storia culturale, la quale a sua volta è mediata dal nostro passato biologico. Il mio Adam è appunto un prodotto fatto come noi: la sua natura di macchina sta in una complessa armonia con le sue capacità di apprendimento.

Per la verità, diversamente da Adam, che ha solo un cervello, noi abbiamo una psiche e siamo animali dotati di senso. Le è mai venuta, nel corso del romanzo, la tentazione di dare al suo robot un inconscio?

Di notte, quando Adam si ricarica, vaga per Internet come un cavaliere solitario. Questo potrebbe corrispondere al «sogno di una macchina», o a qualcosa di simile, e forse assegnargli una forma di inconscio.

Qual è stato il passaggio più difficile da scrivere?

Al centro del romanzo c’è un problema morale che riguarda la vendetta. Adam ha un punto di vista molto diverso sia da quello del narratore sia da quello della sua amante, Miranda: ecco, esporre la divergenza fra le tre diverse prospettive richiedeva una grande delicatezza, perché, a mio parere, proprio questa divergenza ingloba tutto ciò che potrebbe distinguere un essere artificiale da una mente biologica.

Lei non risparmia il ridicolo a nessuno dei suoi personaggi: Miranda ha scritto un solo articolo, intitolato «Il diritto di pascolo dei suini a Swyncombe», suo padre lamenta tutte le malattie immaginabili, Charlie è il primo uomo a essere reso cornuto da un robot, e persino Turing non viene fuori come un genio…

Temo di non condividere la sua idea del ridicolo. I contadini medievali erano estremamente dipendenti dall’economia del maiale, è un fatto! E quando arriverà alla mia età scoprirà quante malattie tendono un agguato alla vulnerabilità umana. Quanto a Alan Turing (l’uomo che nel romanzo fa la parte del saggio, di certo non uno scemo) dice una cosa fondamentale: se mai costruissimo una macchina dotata di coscienza, dovremmo abbandonarne il possesso, l’idea di farla nostra. In altre parole, Turing sostiene una posizione etica fondamentale, che è stata avanzata molte volte in relazione alla schiavitù: non si può applicare la proprietà privata alla coscienza altrui. Se riuscissimo a costruire una coscienza artificiale, non avremmo poi il diritto di distruggerla, come invece fa Charlie.

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