Nel programma per il ventennale del Lucca Summer festival era – sulla carta – l’appuntamento più stimolante in cartellone. E così è stato. Due regine indiscusse della scena r’n’b dai ’90 ad oggi, tanto affascinanti quanto incredibilmente diverse, riunite sullo stesso palco per un evento unico anche se su set differenti. Ad accomunare Mary J.Blige e Erykah Badu è solo l’età anagrafica, per il resto la libera declinazione del pianeta soul è immaginata dalle due artiste americane in maniera decisamente opposta. Tanto sanguigna, passionale con uno stile interpretativo di chiara matrice gospel Mary, quanto contenuta da sembrare algida Erykah, guidata da un genio creativo non comune e approdata a un originale elaborazione del nu-soul. La prima ad apparire sul palco allestito a piazza Napoleone, nel cuore della città toscana, è la cantante newyorkese. Rayban a specchio, extension e attilatissimi pantaloni, la Blige caracolla con maestria su tacchi vertiginosi e infila uno dietro l’altro – supportata da una super band e tre dotatissime coriste – in un medley ad alta temperatura i suoi pezzi più danzerecci come Love Yourself, I can love you, Be Happy. Si muove, ondeggia e riscalda la voce non al meglio nella fase iniziale, per poi scendere dall’ottovolante e accomodarsi su uno sgabello. È il momento di confessare i tormenti del cuore, in primis il fallimento del suo matrimonio di cui il recente album Strenght of a Woman ne è un compendio in musica.

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Un’accorata confessione pubblica di un’artista sopravvissuta a un passato fatto di dipendenze e abusi, di rapporti tumultuosi e di scelte artistiche volute caparbiamente a costo di sbatterci la testa. Da questo momento lo show si invola: via i rayban, ora la «regina» è tutta in rosso, cappello a falde larghe e stivaloni d’ordinanza, mentre la scaletta prevede i pezzi dal nuovo lavoro dove svetta la tagliente Set me free, atto d’accusa contro il marito traditore. Fino alla catarsi del classico No more drama, interpretazione dai toni così mozzafiato che quasi «rovina» il finale affidato a One – il pezzo degli U2 diventato uno dei suoi cavalli di battaglia dal vivo – e Family affair. 

Cambio palco lungo e elaborato e il canonico ritardo di trenta minuti, parte il set della soul diva di Dallas. Alle spalle una studiata coreografia con visualizzazioni afro, stilizzati grafici e rituali omaggi all’antico Egitto, la band di nove elementi improvvisa On & On ovvero il brano più noto dell’album che le ha dato notorietà e Grammy Award: Baduism. E proprio sulla celebrazione del ventennale dalla pubblicazione di questo album manifesto del nu soul, r&b jazzato su cui ha incorporato elementi di hip hop e funk, che Erykah Badu imposta il set. Ieratica e regale, avanza lentamente verso il microfono nascosta dietro un cilindro con specchi e intabarrata in un ampio cappotto.

Le basta poco per sedurre i fan, un gesto con le dita, un tocco sulla drum machine e un vocalizzo purissimo – un’attitudine da navigata interprete che pesca dalla sofferenza di Billie Holiday ma sa anche essere leggera con grazia dalle parti di Diana Ross. Dirige la band, ferma lo show, accelera e rallenta sulle note di Hello – da un recente mixtape che ha interrotto un silenzio discografico che durava dal 2010 – e si produce su altri suoi pezzi noti del suo primo repertorio, Appletree, Love of My Life, improvvisando ardite armonizzazioni con i tre solidi coristi. Un incanto da cui ci si risveglia, purtroppo, sui fraseggi funk di Next Lifetime. La signora saluta e scompare – senza bis – dietro le quinte. Bye bye soul divas.