La sfida del «Vangelo» racconta il presente
Teatro Il nuovo spettacolo di Delbono mescola suggestioni e memorie di altri suoi lavori a nuovi frammenti in una forma che tende sempre più all’opera d’arte totale
Teatro Il nuovo spettacolo di Delbono mescola suggestioni e memorie di altri suoi lavori a nuovi frammenti in una forma che tende sempre più all’opera d’arte totale
Il nuovo spettacolo di Pippo Delbono, Vangelo (all’Argentina fino a domenica 31 gennaio) si apre e quasi scaturisce da due ascendenze, due ancoraggi ereditari molto forti, paralleli quanto a loro modo intrecciati, pur senza risultare mai «concorrenziali». Sono due «assenze», entrambe forti e lancinanti, che l’artista esplicitamente rivendica. L’assenza della madre, scomparsa qualche anno fa, e dalla cui memoria sono già scaturiti diversi spettacoli e film di Delbono, e quella di Pina Bausch, la madre artistica, il genio scenico da cui Pippo andò a scuola di teatro, defunta anche lei ormai da sei anni. La prima è evocata con le parole che a questo spettacolo di «professione religiosa» hanno dato impulso, la seconda occupa tutta la scena con la lunga fila di sedie con cui si misurano gli attori, gli uomini rigorosamente in smoking e le donne in abito da sera.
L’una assenza serve quasi a esorcizzare l’altra, non riempiendone il vuoto doloroso, ma aiutando piuttosto a integrarlo in una organica armonia. Cerniera tra quelle due prospettive, la memoria di una infanzia religiosa e ingenua, dominata dalle contraddizioni che la chiesa romana seminava, nel solco tra le proprie affermazioni e i comportamenti ecclesiastici, tra il verbo evangelico imposto a formulario e lo spirito che ne veniva compresso. Ricordi lontani, preconciliari nella forma (quasi «felliniani» verrebbe da dire, con quelle teorie cardinalizie che tante volte hanno attraversato il teatro di Pippo Delbono) ma anche recenti nelle asserzioni assolutistiche dei «penultimi» papi, e che solo ora papa Francesco liberalizza e riempie di traboccante umanità (o almeno come viene percepita la sua predicazione e la sua condotta di vita). Una grande dialettica, quella tra spirito e lettera di quel Vangelo che dà titolo al percorso dell’artista, ma anche vaso onorabile di ogni Scrittura.
A condurre quella sinergia scenica tra denuncia e speranza, è poi di fatto la musica. Tanto che come «opera musicale» viene anche rappresentato questo Vangelo (prima a Zagabria il cui Teatro nazionale è coproduttore insieme a Emilia Romagna Teatro, e tra qualche settimana a Bologna), con tanto di cantanti, danzatori, coro e orchestra. Ma anche nella attuale versione «teatrale», è musicale la colonna vertebrale del racconto: aperto e chiuso dai lieder di Schumann che possono sfociare in Sympathy for the Devil e nell’omaggio a Frank Zappa, e poi passando tra l’altro per il Don Giovanni mozartiano per arrivare alla Morte secondo Fabrizio De André. Tutto integrato nel grande «binario» che Enzo Avitabile ha composto con Exeredati mundi.
Come ci ha abituato con altri grandi musicisti contemporanei (come Alexander Balanescu), Delbono tende sempre di più alla grande opera d’arte totale: parole, danza, immagini proiettate su quelle agite dal vivo da attori e danzatori, e unificate dalla musica. Quasi che il suo discorso, che punta dritto alla coscienza e all’intesa con ogni spettatore, non possa tralasciare nessun linguaggio per arrivare più forte. In questo senso non si può sottilizzare se certe immagini o certe composizioni sceniche rimandano a tanti altri titoli dell’artista. È come se l’album della memoria procedesse per accumulo di esperienze e visioni, che arricchite di nuovi frammenti indirizzino la sua rotta artistica ogni volta più avanti.
Per questo tutto il percorso sul Vangelo, sul suo significato originario e sui mille fraintendimenti (e forzature, e semplificazioni interessate) cui è stato sottoposto nei secoli, sfocia ora quasi naturalmente nel conflitto più bruciante della nostra attualità: quello che riguarda migranti e rifugiati. Appoggiandosi a sant’Agostino e a Pasolini, ma soprattutto alla bellezza icastica delle immagini. Come quelle marine su cui naviga la speranza dei fuggitivi, che spesso annega nell’indifferenza altrui e nella solitudine della morte.
Pippo Delbono sfida la retorica, sa che è in grado di ribaltare in valore positivo anche le espressioni più facili e scoperte, quando è il pensiero a tenere il timone della navigazione. Soprattutto quando può contare sulla dedizione e il calore della sua compagnia storica (ricompaiono antiche e care presenze) elettrizzata dal confronto con la nuova vague croata. È commovente ritrovare la sicurezza di Nelson (con una chioma sorprendentemente fluente) e la coerenza di Gianluca, non più eterno bambino ma pensieroso termine di confronto. E soprattutto dà da pensare Bobò dal cui viso parla la ricchezza del passare degli anni, e sembra mettere anche il teatro nell’album delle sue molte vite, esaltanti o umilianti che siano state. Ora, sembra gridare questo Vangelo di Pippo, l’emergenza è un’altra, e occorre aprire il cuore, oltre che occhi e orecchie, per coglierla ed affrontarla. Anche sfidando il dolore e la banalità di ogni giorno.
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