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La sfera opaca e separata dal paese

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Sempre più spesso capita di domandarsi, e anche di sentirsi chiedere, che sta succedendo. Forse stentiamo a capire perché abbiamo a che fare con il nuovo, tanto spesso invocato. Ma […]

Pubblicato più di 10 anni faEdizione del 11 luglio 2014

Sempre più spesso capita di domandarsi, e anche di sentirsi chiedere, che sta succedendo. Forse stentiamo a capire perché abbiamo a che fare con il nuovo, tanto spesso invocato. Ma potrebbe anche darsi che di nuovo non ci sia granché, e che l’incomprensibile discenda proprio dal ripresentarsi di una congiuntura niente affatto inedita. Siamo a una notte della politica, ma non la prima che l’Italia viva. Una notte della politica, come della ragione e del decoro, è stato già il ventennio berlusconiano.

n ventennio durante il quale abbiamo visto ogni sacralità profanata, lordata dall’interesse, dalla volgarità e dalla corruzione esibita. Una lunga notte la Repubblica conobbe anche negli anni delle trame nere, dei segreti protetti dalle istituzioni deviate, delle affiliazioni trasversali alle logge massonico-fasciste: gli anni del «doppio Stato» e del connubio osceno tra il Palazzo e le camorre che tuttora infestano il paese.

Una cupa interminabile notte era naturalmente stato il ventennio fascista. Notte perché trionfo della violenza, della brutalità, della sopraffazione, per cui la guerra e la catastrofe che questa generò non possono essere considerate un accidente né un semplice corollario della dittatura. Notte, perché ogni potere fu allora concentrato nelle mani di una cricca di famuli stretta intorno al Capo, in modo da fare della quasi totalità della cittadinanza una massa di manovra ignara e beota. E oggi? Oggi il buio non è meno fitto, è soltanto, in parte, diverso. Di qui, forse, lo sconcerto, lo smarrimento, la difficoltà a comprendere.

La notte berlusconica per un verso perdura. Da quel disdoro non ci siamo più risollevati, avendone la controparte di un tempo, oggi alleata, assunto la feconda eredità. Ne è testimonianza un personale politico ormai oltre i limiti del grottesco – ministri e vice ignari e senza storia; parlamentari semianalfabeti – per il quale la zelante euforica obbedienza è l’esercizio più grato. A guardar bene, prima ancora di scriverla in Costituzione la «riforma» del parlamento si è già fatta in corpore vili, con l’infarcire le Camere di «nani e ballerine», come ebbe a dire un padre della patria. Ma questa nuova notte sembra ancor più tenebrosa, poiché a generarla è l’intreccio di tre fattori distruttivi: la violenza, il segreto, la mistificazione.

La violenza. Due uomini simili tra loro come padre e figlio si accordano in privato con l’avallo e forse la supervisione del capo dello Stato, e decidono, con piglio padronale, quanto l’intendenza applicherà. Chi si mette per traverso è ridicolizzato, infamato, additato al ludibrio quale disfattista frenatore, nemico della patria. Come fu squadristicamente liquidato il precedente inquilino di palazzo Chigi, prima ancora di esserne sfrattato.

Il segreto. Chi sa se gli accostamenti alla P2 abbiano fondamento, se il feeling con Verdini parli di consuetudini arcane, se le fruttuose frequentazioni coi vari Carrai e Serra celino relazioni inconfessabili, se l’irresistibile ascesa sia debitrice al sostegno di «potenze occulte». Di certo nulla sappiamo del «patto del Nazareno», dal quale pur dipende il destino della legislatura. E dell’intrico di interessi e voleri che sorregge il capo del governo permettendogli di giocare con inedita iattanza.

Sopra tutto, la mistificazione. E l’opacità che la motiva. Ancora sino a pochi anni fa la dialettica politica era in qualche modo riconducibile a ragione. Oggi non più, ammesso e non dato che una dialettica persista. Il governo prende decisioni, rilevanti e rovinose. A mezzo di un parlamento delegittimato travolge in allegria una Costituzione costata lacrime a sangue a chi combatté il fascismo. Distrugge quel che resta dell’industria pubblica e delle tutele del lavoro dipendente. Privatizza il bene comune e rinnova i fasti delle regalie alla Chiesa. Circuisce i lavoratori con la truffa populista degli 80 euro mentre affama il welfare. Persevera, determinato, nella sistematica distruzione delle condizioni di vita di persone sempre più povere, sempre più minacciate.

Ma la politica si muove ormai dentro una bolla separata dal paese reale, impermeabile alle sue cure, ai suoi affanni, al suo travaglio. Dentro una sfera opaca, impenetrabile, che lascia intravedere solo una ratio oligarchica (in quanti decidono ciò che quasi tutti poi eseguono?). E sotto la schermatura – una falsa trasparenza – di una rappresentazione edulcorata, che impedisce di cogliere il senso degli accadimenti. Certo, non è difficile individuare nella sovranità del privato, chiave di volta del neoliberalismo, il fulcro delle scelte del governo, e la base aurea del connubio tra i due padroni della politica italiana. Ma questa connessione si desume da uno sguardo d’insieme, non da un’analisi puntuale dei processi. E a rigore prescinde dalla ragione sociale – in teoria diversa – delle parti in gioco, anzi confligge con essa.

Se è così, di chi è la responsabilità? Non certo del solo Renzi, il quale, deus ex machina, è l’uomo giusto al posto e al momento giusto, come ha puntualmente rilevato l’on. Orfini, prototipo di coerenza, linearità e lungimiranza. Il cuore del problema è piuttosto il bipolarismo all’italiana, entrato nella sua maturità grazie alla secolarizzazione e patrimonializzazione dei partiti maggiori (questa la lezione cruciale che Renzi ha tratto dal suo padre politico) e all’indefessa opera del presidente della Repubblica, grande sacerdote in questa notte buia. La verità del bipolarismo italiano, tenacemente inseguita dagli anni Novanta (si pensi all’inciucio con Berlusconi rivendicato da Luciano Violante), è precisamente questo regime delle «larghe intese», questa venefica palude centrista che tutto sommerge aggruppando incondizionamente quanti hanno vantaggi da trarre dalla propria accorta connivenza. Grazie a questo regime si è perfezionato il meccanismo. E si può ormai viaggiare spediti, consci dell’urgenza delle «riforme», della superiore necessità di far presto senza attardarsi in discussioni futili, la riflessione essendo ormai un lusso fuori moda.

Inutile dire che questa situazione dovrebbe parlare alla sinistra politica italiana, se solo questa esistesse. Siamo così all’ultimo tassello di un mosaico desolante. Mentre dall’alto si infligge ogni sorta di ingiurie al paese più ingiusto della vecchia Europa, dal basso nessuno sembra in grado di suscitare un’opposizione, di organizzare una resistenza. Anzi, il più delle volte pare si lavori a distruggere quanto si è faticosamente costruito. Le lacerazioni in Sel, attraversata da potenti spinte centripete; l’isolamento di Rifondazione, ridotta a pochissima cosa e sempre più chiusa in se stessa; i dissidi nella Lista Tspiras, incomprensibili se non come espressioni di particolarismi. Non interessano qui le eventuali ragioni, che cessano di essere tali per il semplice fatto che l’esito è questo: divisa e frammentata, da un decennio o giù di lì in Italia la sinistra politica non figura nel gioco politico, di fatto non esiste più . Il che la rende corresponsabile di questa cupa notte. Ed è una responsabilità che si fa ogni giorno più pesante.

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