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Martin Scorsese, la seduzione virile del capitalismo

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Cinema Con «The Wolf of Wall Street» Scorsese torna alle pulsioni più primarie La farsa degli eccessi, coca, lusso, sesso, di un predicatore del «crimine»

Pubblicato quasi 11 anni faEdizione del 27 dicembre 2013

L’ Hollywood Reporter lo ha definito l’equivalente stilistico di un mix di cocaina e Viagra, e alcuni critici hanno manifestato disagio di fronte allo sfoggio iperbolico di sesso, droga e «rock ‘n roll», ma alla sua uscita, il giorno di Natale, gli americani si sono precipitati a vedere The Wolf of Wall Street. Alle undici del mattino, il nuovo film di Scorsese risultava sold out, esaurito, in tutte le sale di Manhattan fino agli spettacoli delle sette/otto di sera, e i primi dati del botteghino indicano che, con 9.2 milioni di dollari in biglietti venduti, Leonardo Di Caprio e il suo orgiastico esercito di traders senza scrupoli hanno dato del filo da torcere agli hobbit di Peter Jackson (9.3 milioni).

Ironicamente, il primo a riconoscere il potere messianico di un messaggio che promette denaro illimitato e, con esso, una lista di divertissement da far sembrare innocenti gli spring breakers di Harmony Korine, è proprio Scorsese, che filma il suo protagonista – un ragazzo della Queens blue collar diventato plurimiliardario vendendo a degli sprovveduti azioni che non valevano niente – meno come un Machiavelli della finanza che come un predicatore religioso, il capitalismo sfrenato la mega-Chiesa più irresistibile di tutte.

Se, come ha riconosciuto anche il regista, The Wolf of Wall Street è l’ultimo capitolo di una trilogia «del crimine» di cui fanno parte anche Goodfellas e Casino, l’altro titolo che viene in mente guardandolo è infatti il suo grandissimo film sulla seduzione della performance, The King of ComedyRe per una notte.

Il teatro della storia, in realtà, non è Wall Street, bensì Long Island – lo stesso set di Gatsby (un ideale doppio programma con Wolf , non solo per Di Caprio: si tratta di un’equivalente parabola «americana»). E delle gesta dei piccolo truffatori di American Hustle. Scritto da Terence Winter (uno degli sceneggiatori di The Sopranos e Boardwalk Empire), il film è adattato dall’autobiografia di Jordan Belfort. Quanto lo incontriamo, nell’incarnazione ipervitaminica di Leonardo Di Caprio (al quinto film con il regista), si presenta in prima persona con un lungo elenco di eccessi – lusso, droga e sesso in quantità abominevoli. Il tono è quello di una farsa dell’eccesso: Jordan che ci mostra le sue case e lo yacht, pacchianissimi, Jordan alla guida di un elicottero che è troppo fuso per pilotare, Jordan che tira coca dall’ano di una prostituta…

No, non è stato sempre così, ci spiega, e andando indietro nel tempo lo incontriamo poco più che ventenne, quando ancora sognava di scalare le vette del potere nella downtown di Manhattan. Alla banca d’investimento L.F. Rothschild, dove lo hanno assunto ai telefoni, la prima lezione di vita gli arriva durante un pranzo a base di coca e Absolut Martini, da un broker stagionato (Matthew McConaughey, magnifico), che gli dispensa consigli fondamentali come «Non pensare mai al bene del cliente, solo al tuo». E ancora: «Per dare il meglio di te in questo lavoro devi masturbarti almeno tre volte al giorno», e: «Se un cliente vuole vendere per riscattare il suo profitto devi assolutamente impedirglielo, e obbligarlo e reinvestire: la transazione non deve mai tradursi in denaro per lui, se no diventa realtà. Tu intanto ti metti la percentuale in tasca».

Quando il lunedì nero (il 19 ottobre 1987) manda a picco il suo datore di lavoro, Belfort si assicura una scrivania in un basso fabbricato della suburbia, dove un gruppo di sfigati (diretti da Spike Jonze), spacciano a dei poveretti delle penny stocks, azioni troppo insignificanti per essere quotate in borsa. Quando si tratta di vendere fuffa, Belfort è provvisto di doti, e ambizioni, superiori; in breve, insieme al suo numero due Donnie Azoff (Jonah Hill), e a un gruppo di amici d’infanzia, si mette in proprio. Questa è l’America, il paese delle opportunità, recita Belfort come un guru ai suoi adepti.

Dietro all’aura blu chip del nome che sceglie per la sua compagnia, Stratton Oakmont, ci sono pratiche finanziarie clamorosamente illegali, che presto attirano l’attenzione dell’Fbi, e delle pulsioni da Animal House – Belfort e i suoi come una fraternity infernale. Durante una delle orge-party che si tengono regolarmente in ufficio, una broker accetta di farsi radere pubblicamente il cranio in cambio di un copioso assegno – che userà per pagarsi un paio di tette al silicone. È una delle scene più crudeli del film. Il cinema di Scorsese è quasi sempre stato un cinema sugli uomini, e in questo suo lavoro, più sessualmente osé di tutti gli altri, l’equazione tra il funzionamento della macchina della finanza e quello del pene è matematica.

Il crescendo allucinato e assordante di The Wolf of Wall Street è simile a quello di Goodfellas, una discesa agli inferi progressivamente più grottesca, allucinata, ridicola. La macchina di Scorsese quasi compete con l’energia fisica inarrestabile di Belfort/Di Caprio. Concedendosi persino una lunghissima, buffissima scena, tra Jerry Lewis e un cartoon della Warner, in cui Jordan, dopo essersi fatto troppe pillole di Quaalude, non riesca a muoversi ed è costretto a strisciare fino e dentro alla sua Ferrari.

Hugo Cabret, un film sulla meraviglia e sullo sguardo, ci era sembrato profondamente autobiografico. Con Wolf Scorsese torna a delle ossessioni personali più primarie. Si sente, nel cut di tre ore che arriva in sala (a un certo punto erano più di quattro), l’ambizione di trascendere i limiti del lungometraggio (Winter porta al progetto un respiro «seriale»). Non è un film chiuso questo, risolto come Goodfellas e Casino, ma ha dei momenti altissimi (oltre alla scena del Quaalude e a quella con McConaughey, il primo incontro tra Jordan e l’agente Fbi ) e non si può smettere di guardarlo. Come gli (avidi) allocchi che abboccano all’amo di «padre» Belfort, siamo tutti assuefatti.

 

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