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La scuola pidocchiosa ai Censi di Secondigliano

Renzi e la feroce politica che vuole riformare la scuola con il delitto della "mobilità nazionale", con la propaganda di un "merito" che non conosce l’ingiustizia sociale

Pubblicato circa 10 anni faEdizione del 13 settembre 2014

Terranei limacciosi, roventi d’estate e gelati d’inverno, ammassati tra Via Cassano, il cimitero e gli stucchi umbertini di Corso Italia: questo erano i “Censi” a Secondigliano negli anni Settanta del secolo scorso. Miseria, ignoranza, rassegnazione, povera gente messa a marcire in lerci tuguri, grumi di umanità diffidente e straniera che ti seguiva con la coda degli occhi finché poteva. Così, con la sensazione d’esser seguito, ci passai per sei anni e fu sempre come la prima volta, quando da via Tagliamonte sbucai su una spianata di terra battuta e ciuffi d’erba olivastra: al centro, due prefabbricati con le finestre a vetri rinforzati, circondati da un muro di tufo, tra bidoni anneriti dai falò notturni, carcasse d’auto, cumuli d’immondizia, copertoni, zingari accampati, tende, roulotte, celerini e una folla inferocita. Una scuola in una terra di camorra.

– Via una tribù – sibilò quel giorno il direttore didattico – ce n’è un’altra che arriva. Cominciai così, tra zingari rifiutati, mamme inviperite, manganelli e bambini di prima elementare entrati in classe a fatica in mezzo a compagni distesi a terra, aggrappati ai piedi delle mamme. Era scritto in quegli occhi piangenti che parlavano più chiaro delle bocche: la scuola che da studente avevo odiato mi avrebbe ferito di nuovo. Però l’avrei amata.

Erano tempi di svolte così radicali che non bastavano bombe. La scuola si apriva alla società e ai “Censi” la “democrazia partecipata” fu vita vera; per un po’ i collettivi tennero il campo e si lottò. La destra fece carte false per tener fuori la scuola pidocchi, pidocchiosi e pensiero critico e trovò muti consensi al centro, la sinistra frenava ogni forma di autonomia, ma facemmo causa comune coi pidocchiosi che chiedevano diritti, tenemmo duro e la sorte dei pidocchi non pesò su quella dei pidocchiosi ai quali, però, quando si votava – Consiglio di Circolo o Parlamento poco importava – in cambio di voti, i clerico-fascisti donavano pettini stretti, aceto, miracolose polveri antiparassitarie e per sopramisura un impegno allettante: mai più zingari ai “Censi”.

I docenti spaesati dalla scuola di massa cercarono riferimenti: la sinistra attirò i liberali, la destra i nostalgici dei tempi andati che nello schifo per i pidocchi della scuola di massa, misero l’odio di classe. In quanto alla “società civile”, piantò baracca e burattini e si buttò sul privato.

Il direttore didattico mise in campo il coraggio di ex combattente, ma alla scuola di massa mancò sempre qualcosa, dai bidelli agli arredi, dalle aule alla palestra, dai laboratori ai sussidi. E non bastò nemmeno che molti dei docenti ostili, capito il gioco, scendessero in trincea; la “democrazia partecipata” morì nell’impotenza degli Organi Collegiali e la stagione di lotte si chiuse in labirinti di zingari, copertoni, carcasse d’auto rubate e battaglie sindacale sugli stipendi.

Coi ragazzi di prima giunsi alla quinta, ma a Natale erano analfabeti. Grandi cerchi fuori dai righi, ominidi stilizzati come fossimo al paleolitico, macchiaioli, impressionisti, ma analfabeti: qui mi aveva condotto una “Guida per il maestro” che ignorava l’esistenza dei “Censi” e dei suoi ragazzi. A parte i pidocchi, le classi “migliori” stavano anche peggio, ma aver compagni al duol non scema la pena. I ragazzi mi volevano un bene dell’anima, erano un miracolo di democratica indisciplina, ma il profitto valeva zero e mi prese un’ansia senza nome. La notte sognavo l’alfabetiere, balzavo su col cuore in gola e mi calmavo preparando esami per l’università.

Fu a fine febbraio. Un lampo negli occhi e Bocchetti, trionfante, esibì fogli zeppi di parole corrette. Tartagliava come sempre, in preda a indomabili tremori nervosi, ma la spuntò. In un quadratino in alto a sinistra, come si doveva, aveva messo un topo accettabile; la coda era forse lunga, ma la pagina era piena di parole che cominciavano con “zeta”: corsivo, stampatello, maiuscole e minuscole. Preciso e pulito. «Bravissimo! – gli feci, sobbalzando – ma dimmi che hai scritto».

«La z di zoccola, pruvessò!». E la luce dei suoi occhi entrò nella mia testa. Per i ragazzi dei “Censi” il topo aveva due nomi: “sorice” o “suricillo”, se intendevano topolino, “zoccola” o “zucculona” se si trattava di notevoli dimensioni o donne di facili costumi, E’ terra straniera, mi dissi, e a casa lavorai come un pazzo. Ventiquattr’ore dopo ero uno straccio, ma giunsi ai “Censi” ch’era quasi l’alba. La celere come sempre circondava zingari e scuola. Tappezzai l’aula di nuovi cartelloni. La z di “zoccola” al posto d’onore, rinforzata da un frate francescano – “ze’ monaco” ai “Censi” era una finezza da Basilio Puoti – e col frate, a scanso equivoci, incollai un “suricillo” vivace con le sue letterine: “s” maiuscola, minuscola, in stampatello e corsivo. Più in basso, un trionfo di gatti stampati con cura; uno bianconero e un altro fulvo, con le chiarissime iniziali: la “i” di “iatta” e la “m” di “mucillo”. Questo era il gatto ai “Censi”: “iatta” o “mucillo”. Una botte marrone a cerchi neri suggeriva decisa la “v” di “votta”, un’oca grande e grossa stava lì per la “p” di “paparella”, e via così, doppi e tripli cartelloni per un terremoto che inserì la scuola, la lettura e la scrittura tra le conquiste della vita dei miei tripudianti ragazzi.

In quegli anni divenni maestro. Non chiedete di errori o di danni. Andò come poteva andare. Ignoranti senza futuro, però sul viso denutrito e negli occhi vivi c’era ancora posto per il rosso dell’imbarazzo, della vergogna e della timidezza, per l’innocenza dell’infanzia, appannata dal velo di chi conosce la vita. Niente era già perso. Dei genitori, i padri erano invisibili e le mamme a trent’anni già vecchie. Subito fuori, però, il veleno della “società civile” ci soffocava più degli zingari e della celere. Sullo slargo dopo Via Tagliamonte i cortei di protesta che attraversavano la città non giunsero mai. La politica ai “Censi” si preparava a sostituire nuovi ghetti a vecchi formicai; politica era la licenza concessa a una scuola privata per borghesi benpensanti; era il favore in cambio del favore, il voto che valeva lavoro.

Un alunno si perse. Uno piccolino che mi aveva avvisato: «Ce sta nu Mecedes che mi piace. Dimane vedimme’ comme va». I carabinieri lo inseguirono a sirene spiegate: al volante non si vedeva nessuno, ma guidava come un pilota di formula uno. Quando strinsero l’auto al muro dopo il marciapiede, era sdraiato al posto di guida. Toccava i pedali con la punta dei piedi, teneva il volante tra le mani dio solo sa come e davanti vedeva e non vedeva, però gli bastava. Il giorno dopo finì sulle pagine dei giornali e a scuola mi sfidò: «Io ve l’avevo ditto». Sulle prime pagine tornò anni dopo: ergastolo per omicidio durante una rapina. Uccise il custode di una fabbrica con una fucilata. Degli altri non so. Passai alle medie e ai “Censi” non tornai più. Ormai non esistono più; li spazzò via la ruspa alla fine degli anni Settanta: recupero delle aree periferiche, si disse. Sulle macerie ora trovi impenetrabili ghetti e una camorra da società dei consumi. Più feroce dell’onorata società di lazzaroni e guappi. Intanto più feroce di ogni ferocia, la politica continua a “riformare la scuola”; Renzi ora la salva con non la incredibile “mobilità nazionale”. Un delitto, questo, che nessuno pagherà.

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