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La scoperta di un Donatello estremo

La scoperta di un Donatello estremoDonatello, Crocifisso della Compagnia di Sant’Agostino a Legnaia, Firenze

Un giovane storico dell’arte (che qui scrive) avverte la mano di Donatello in un crocifisso ligneo di una chiesa di Legnaia, nella periferia di Firenze. Il restauro conferma   L’accrescersi delle conoscenze sul nostro patrimonio artistico può essere favorito da nuove ricerche, dal ripensamento critico di consolidate posizioni storiografiche e dalla scoperta di opere ignote o dimenticate o […]

Pubblicato più di 4 anni faEdizione del 29 marzo 2020
Donatello, un dettaglio (a colori) del Crocifisso di Legnaia, Firenze, a confronto con un dettaglio (in b/n) della Giuditta di Firenze, Palazzo Vecchio

 

L’accrescersi delle conoscenze sul nostro patrimonio artistico può essere favorito da nuove ricerche, dal ripensamento critico di consolidate posizioni storiografiche e dalla scoperta di opere ignote o dimenticate o ancora trasfigurate nel corso dei secoli da menomazioni inflitte dall’intervento umano. Quest’ultima possibilità avviene più di quanto si creda e il caso esposto qui ne è una conferma eclatante.
Un’indagine condotta per la tesi di dottorato, discussa a Napoli nel 2013 e dedicata allo studio dei Crocifissi lignei toscani fra tardo Duecento e prima metà del Cinquecento, ha permesso a Gianluca Amato di arrivare alla scoperta di un’opera finora sconosciuta di Donatello. E questo è stato possibile grazie alla capillare consultazione on line delle immagini tratte dalla catalogazione ministeriale del patrimonio artistico pubblico soggetto alle leggi di tutela, che la Soprintendenza di Firenze ha fatto da diversi decenni.
Il buon esercizio della connoisseurship ha permesso ad Amato di formulare l’attribuzione allo scultore fiorentino, anche se la figura del Crocifisso era notevolmente appesantita da evidenti e replicate ridipinture. Nelle fasi successive alla scoperta è stata fondamentale l’interazione con la Soprintendenza di Firenze, dove Anna Bisceglia, funzionaria storica dell’arte di quell’Istituto, ha reperito nei fondi ministeriali la somma necessaria per far restaurare il Crocifisso, che è stato affidato alle cure di Silvia Bensi, particolarmente specializzata nel risolvere casi complicati come quello in questione, per il quale sono occorse delicate operazioni di asportazione delle sottili e spesso tenaci ridipinture, che sono state tutte sciolte con particolari gel e sotto il costante controllo di un microscopio ottico.
L’operativo circolo virtuoso così messo in moto non solo ha consentito il recupero di una scultura rilevante, ma soprattutto permette di ribadire la necessità che la salvezza del patrimonio italiano passi per le vie della ricerca più scrupolosa e della più attenta tutela del territorio e dei suoi contesti storici. Non sarà superfluo ribadirlo anche in questa occasione, assistendo sempre più a una deriva nella gestione del Ministro dei Beni Culturali e Ambientali, che oggi è troppo squilibrata nel rafforzamento dei musei, considerati come aziende produttive per il turismo di massa e non come istituzioni per la formazione culturale dei cittadini. Al contrario l’attenzione e le risorse per la cura del territorio sono di fatto molto diminuite e restano affidate alla sensibilità degli ormai pochi funzionari formati prima della sconvolgente riforma del ministro Franceschini. Ma per poter salvare il nostro «museo diffuso», come oggi piace definire l’insieme compatto delle testimonianze storico-artistiche disseminate ovunque nel nostro territorio nazionale, sarà necessario tornare a incrementare i finanziamenti, a immettere nelle file dell’amministrazione del Ministero forze giovani, selezionate con seri criteri di merito e di scientificità (con prove selettive meno ‘bovine’ e asettiche di quelle dei concorsi attuali, che spesso non valorizzano le reali conoscenze e competenze dei partecipanti), e a stabilire più stabili rapporti con il mondo universitario, che ha il compito di formare le nuove leve di ricercatori addetti alla tutela, ai quali è bene insegnare quanto sia appagante ed eticamente vantaggioso poter conoscere e conservare le «ricche miniere» del nostro pubblico patrimonio storico artistico.

(Alessandro Bagnoli)

Poche ragioni come la scoperta di un’opera importante riconsegnano la storia dell’arte alla sua dimensione più vera, fatta di concretezza e di grande attualità. Il Crocifisso della Compagnia di Sant’Agostino a Legnaia, nella periferia di Firenze, è un’opera pressoché sconosciuta alla memoria di molti fiorentini tanto quanto a quella degli storici dell’arte, specialisti di Rinascimento. Il lettore potrà forse sorprendersi davanti al collegamento di un’opera tanto trascurata con il nome di Donatello, il padre della scultura del Quattrocento. Eppure, proprio le ricerche nell’ambito della scultura degli ultimi sessant’anni non di rado hanno messo a segno scoperte clamorose, soprattutto fra quelle tipologie di opere meno frequentate dal circuito degli studi, come i Crocifissi e, più in generale, la produzione plastica nei cosiddetti materiali «umili», come il legno e la terracotta dipinta.
Il caso di Legnaia è in tal senso rappresentativo. Infatti, sebbene l’importanza della scultura e il suo rapporto con l’attività estrema di Donatello fossero emersi fin dal primo contatto con l’opera, avvenuto nel 2012, il suo cattivo stato di conservazione, e le evidenti differenze formali, dimensionali e cronologiche dai tre monumentali Crocifissi noti del maestro (l’esemplare ligneo in Santa Croce a Firenze, sua opera giovanile, e i due testimoni, in legno e in bronzo, rispettivamente nella Chiesa dei Servi e nella Basilica del Santo di Padova) hanno imposto di procedere con cautela, rendendo prematura una segnalazione prima del necessario restauro.
Le indagini diagnostiche hanno rilevato la natura complessa della scultura di Legnaia. Si tratta di un’opera concepita ad hoc per un uso eminentemente processionale. Lo confermano le dimensioni e il peso contenuti (89 x 82,5 cm, per appena 3,300 kg), e alcuni aspetti della lavorazione. Scolpito in tre masselli di pioppo, e parzialmente svuotato al suo interno, il Crocifisso è giunto a noi nella struttura originaria, sostanzialmente ben conservata, tranne che per i traumi subiti nelle braccia e nella parte superiore della testa, anticamente non scolpita ma coperta da un rivestimento in stucco modellato.
L’alternanza di parti lavorate «per via di levare» (ovvero intagliate) ed altre «per via di porre» (ossia modellate), caratterizza peculiarmente la produzione lignea donatelliana, dai capolavori riconosciuti dell’artista, come il Battista dei Frari di Venezia, il Crocifisso dei Servi di Padova e la Maddalena del Museo dell’Opera di Firenze, alle opere eseguite dai suoi più stretti collaboratori, sotto lo stretto controllo del maestro o in piena autonomia.
Quanto alla paternità dell’opera, il riconoscimento donatelliano si fonda sull’analisi dello stile, ovvero su quello strumento analitico specifico della storia dell’arte, che, attraverso i principi metodologici propri della filologia classica, della linguistica storica e della critica storica, finalizza la lettura formale di un’opera, ricostruendone i rapporti con il corpus di un determinato autore.
Sulla base di tale assunto, il ‘Cristo’ di Legnaia appare come un’opera emblematica dell’ultimo Donatello. Tutto porta a credere, infatti, che esso sia stato realizzato nel periodo vissuto dall’artista tra il rientro a Firenze da Siena, nel 1461, e l’avvenuta morte, nel dicembre 1466.
A Legnaia, l’ultrasettantenne Donatello riaffronta il tema del Crocifisso con attitudine mutata rispetto ai suoi esempi precedenti. Nel Cristo ritrovato (a oggi l’unico esemplare di medio formato riconducibile al maestro) la modulazione delle forme si fa meno veemente, mentre muta l’intonazione patetica, definita ora da lineamenti pesanti, e da forme cedevoli e arrotondate. I capelli e la barba morbidi e rappresi, le membra tumide e vigorose, il volto dolente e le labbra carnose e trafelate, offrono riscontri importanti soprattutto col nudo dell’Oloferne nel gruppo mediceo della Giuditta (Firenze, Palazzo Vecchio, Sala dei Gigli). A ciò si uniscono le corrispondenze tra il perizoma fasciante del Cristo, modellato in tela imbevuta di colla e di gesso, e le intense modulazioni del copioso panneggio della Giuditta.
Sul grado di finitura dell’opera sembrano aver pesato le vicende personali dell’anziano scultore, dalla fine del sesto decennio del Quattrocento oberato da numerose commissioni, a cui non sempre fu in grado di tenere testa sino alla fine. Un esempio importante, nel bronzo, è testimoniato dalla statua del Battista nella Cattedrale di Siena, rimasta sprovvista del braccio destro, quando Donatello abbandonò in tronco l’Opera di Santa Maria per rientrare a Firenze nel 1461. A ciò si aggiunge la mancata conclusione di uno degli incarichi più importanti della tarda carriera dell’artista: il monumento equestre di re Alfonso V d’Aragona per l’ingresso del Castel Nuovo di Napoli, avviato dallo scultore nel 1456, ma non andato oltre la fusione della testa del cavallo, nota poi come «Protome Carafa».
Il Cristo di Legnaia si configura, dunque, come una delle ultime prove dell’anziano Donatello. È verosimile che l’opera giacesse nella bottega dello scultore sostanzialmente compiuta ma non ultimata nelle braccia, rimaste infatti allo stadio di abbozzi, e come tali assemblate al resto della figura. Si deve a un ignoto continuatore dell’artista il recupero e il conseguente riutilizzo della scultura, così come la scelta del maestro a cui affidare la policromia.
La stesura pittorica, recuperata dal restauro nella sua facies originale, presenta aspetti arcaizzanti, paragonabili a quelli elaborati da pittori fiorentini culturalmente affini a Neri di Bicci.

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