Elena Ferrante, la scompostezza dell’adolescenza
Scaffale Da oggi, in libreria, l'ultimo romanzo «La vita bugiarda degli adulti» della scrittrice della quadrilogia dedicata all'«Amica geniale», per e/o. Sullo sfondo c’è ancora Napoli, quella del Rione Alto di san Giacomo dei Capri e l’altra città dei bassifondi.
Scaffale Da oggi, in libreria, l'ultimo romanzo «La vita bugiarda degli adulti» della scrittrice della quadrilogia dedicata all'«Amica geniale», per e/o. Sullo sfondo c’è ancora Napoli, quella del Rione Alto di san Giacomo dei Capri e l’altra città dei bassifondi.
La voce autoriale di Elena Ferrante ha un timbro che nel corso del tempo è divenuto ormai inconfondibile e tutto suo proprio, grazie alla capacità di tratteggiare un mondo abitato da donne e uomini profondamente diverso da quello che la tradizione ci ha consegnato fino a oggi, ma soprattutto capace di creare un io potentemente esorbitante la pagina scritta, da cui tracima a ogni riga per divenire carne e ossa davanti agli occhi della mente di chi legge, come accade anche in questo romanzo, La vita bugiarda degli adulti (e/o, pp. 336, euro 19) che ha origine da un dolore «arruffato, senza redenzione». E dall’amore per il padre, esile e gentile e quindi elegante, che però dice alla madre che la figlia è brutta, molto brutta, e viene inavvertitamente sentito dalla figlia in un momento particolare della sua esistenza, l’adolescenza, il mutarsi del corpo di una ragazza che diviene donna. Giovanna ha tredici anni, ed è nata il 3 giugno 1979 – data esatta come è nelle modalità della narrazione di questa scrittrice – che ci fa intuire, Ferrante ci ha ben abituati a ciò fin dalle prime pagine della tetralogia L’amica geniale, che l’io narrante ha oggi quarant’anni.
SULLO SFONDO NAPOLI, ancora una volta, ma questa volta la Napoli dei palazzoni del Rione Alto di san Giacomo dei Capri abitata da un ceto medio intellettuale e discretamente benestante che cresce le proprie figlie tra gli anni Ottanta e Novanta del secolo scorso all’insegna «dell’orgoglio di essere nate femmine». Di contro vi è la Napoli «nel fondo del fondo», in cui Giovanna si avventura per andare a vedere meglio la zia Vittoria, alla cui bruttezza e sospetta follia il padre l’ha paragonata, paventando eredità fisiche non gradite, contatti non voluti né desiderati.
I parenti del padre, ai quali appartiene zia Vittoria, sono «sagome ululanti di disgustosa scompostezza, soprattutto quella di zia Vittoria, la più nera, la più scomposta» e zia Vittoria è un rettangolo cancellato nelle fotografie del padre, sorta di bara in cui è chiuso il corpo e l’immagine di una sorella simbolo di un’origine non amata né fatta propria.
Da antologia la pagina in cui la ragazzina si guarda allo specchio cercando i tratti della zia così paventati da suo padre, scrutando le sopracciglia, gli occhi, la fronte, le labbra in cerca di quanto non è suo, i capezzoli, le gambe da ragno, di contro ai genitori, bellissimi invece agli occhi della ragazzina e anche della quarantenne che scrive a distanza di tempo.
Rifugio e confronto sono le amiche Angela e Ida, ma sapiente è la descrizione dell’insinuarsi progressivo della sfiducia in sé, di un malessere cui non si sa dare nome, rispetto al quale interviene la madre, maestra in quelle che vengono definite «le operazioni di rattoppo» e mai definizione è stata più familiarmente appropriata per quella cura tutta femminile e particolare del medicare e trovare rimedi alle ferite dell’anima. E che traccia una geografia della conoscenza per la figlia di una città alla quale si appartiene e che essa può attraversare da sola, se lo desidera, nonostante questa lo percepisca come la fine dell’infanzia, la privazione della protezione materna e genitoriale alla cui ombra benefica si cresce e al di fuori della quale ci si sente esposte a un «futuro di femmina perfida e brutta» .
Il che ha una sua fascinazione, però: oscillando tra la necessità di un’autorizzazione paterna e materna e insieme a un bisogno progressivo di estraneità dai suoi genitori, Giovanna cresce nel mondo e mai opera è stata così precisa, spietata e tenera nel raccontare le peripezie interiori – e anche esteriori – del divenire grandi, del divenire donne attraversando la vita bugiarda degli adulti che nel corso della narrazione si palesano per quello che sono, esseri umani giustamente non poi così onnipotenti e perfetti come l’infanzia ci fa presumere per un tempo infinito e sospeso.
«FIL ROUGE» della narrazione un braccialetto che passerà di mano in mano e attraverso storie generazionali diverse, provocando volta per volta equivoci, chiarimenti, svelamenti impensabili per l’io bambina della situazione iniziale e che verrà poi abbandonato insieme ai cascami di quanto il patriarcato ha a lungo imposto come retaggio alle giovani donne, quello del corpo femminile costretto nella verginità come valore da difendere. Sono passaggi affrontati anche ne L’amica geniale, memorabile la parte dedicata alla scoperta del proprio corpo di Lenù a Ischia, ben rappresentata da Saverio Costanzo nello sceneggiato televisivo omonimo nella forma simbolica del mare osmotico in cui si immerge la ragazza.
COSÌ come con il personaggio del padre e la presenza del doppio registro lingua media/dialetto sembra quasi che Ferrante voglia costruire una rete di continuità con quanto già scritto, quasi che si volessero porre tessere note in un percorso quale quello dell’adolescenza turbolento e sempre ignoto per ogni soggettività.
Ma in modo altro e diverso ne La vita bugiarda degli adulti la focalizzazione è tutta sulla «faticosa approssimazione al mondo adulto» e sulla cecità che la contraddistingue, l’ira e il furore quando non si è in grado di governarsi, il senso di perdita e spaesamento a Napoli, qualunque Napoli essa sia o a Milano, appena tratteggiata sullo sfondo della parte conclusiva. Il ritmo della narrazione è lento con accelerazioni improvvise nelle quali riconosciamo il passo così amato di Ferrante, esposto alla vita e al suo fluire impetuoso, alle sue turbolenti temperature calde e fredde senza soluzione di continuità, se non quella data dalla percezione di un fondo segreto dell’esistenza difficile se non impossibile da afferrare, la cui pena e incanto, una volta adulti, non ricordiamo più.
MAGISTRALI I DIALOGHI, sia in forma diretta che in forma indiretta, che hanno il passo e il ritmo del racconto riportato e ri-raccontato della tradizione orale: a un certo punto la voce narrante, quasi si stesse confidando con un’amica, osserva «ora non ricordo il film che proiettassero, forse mi verrà in mente in seguito». E al tempo stesso vi è il passo della grande letteratura, da Balzac a Stendhal e il sempre amatissimo Proust pure evocato nelle pagine del romanzo, da Ortese a Morante fino ad arrivare a Sibilla Aleramo, il cui Una donna è qui antecedente al quale si reca implicito omaggio.
La baldanza della giovinezza della personaggia protagonista del famoso romanzo di Aleramo è infatti parte fondante della genealogia letteraria dell’indagine di Ferrante, che interloquisce anche con l’Alessandra tumultuosa protagonista di Dalla parte di lei di Alba de Céspedes, alla cui adolescenza sono dedicate pagine significative. Ferrante raccoglie il testimone e affronta che cosa vuol dire «diventare adulte», anche se non sapremo mai come è la giovane donna quarantenne. La vita bugiarda degli adulti è un romanzo necessario, che fa intravedere una possibilità di essere per le giovani donne «vere e agguerrite e benevole» come non è potuto accadere o è accaduto in parte a Lila e Lenù, inscritte nel Novecento.
Diventare adulte «come mai a nessuna era successo» è la frase con cui si conclude il romanzo: Giovanna quarantenne è donna della contemporaneità, capace di lasciarsi alle spalle una verginità inutile se non fittizia e con essa l’intero Novecento patriarcale, bello pensarla nel futuro libera insieme alle altre.
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