La scomparsa di Oliver Sacks
Addii La scomparsa del neurologo e scrittore. I casi clinici sono stati il bacino dal quale ha attinto per libri di successo su alcune patologie del cervello
Addii La scomparsa del neurologo e scrittore. I casi clinici sono stati il bacino dal quale ha attinto per libri di successo su alcune patologie del cervello
Neurologo e scrittore di fama, Oliver Sacks è stato uno degli intellettuali più noti e influenti degli ultimi decenni: l’esplosione della sua notorietà è datata almeno dal 1990, anno in cui uscì il film Risvegli, interpretato da due grandi attori come Robin Williams e Robert De Niro, e liberamente ispirato all’omonimo libro, uscito nel 1973 (ma in Italia solo nel 1987), nel quale Sacks racconta di un gruppo di pazienti sopravvissuti all’encefalite letargica che sperimentano una nuova cura. Il libro, del resto, era già stato oggetto di un pezzo teatrale, scritto nel 1982 da Harold Pinter, intitolato A kind of Alaska, e già da tempo Sacks era stato arruolato fra le firme del The New Yorker e della New York Review of Books.
È evidente che la fama di Sacks dipende direttamente dalla sua straordinaria capacità di trasformare la propria esperienza di medico, in particolare di neurologo, in veri e propri racconti letterari: una capacità così rara e singolare che si deve pescare, per rintracciare quello che è probabilmente il suo unico antecedente, nel Freud dei casi clinici, anche quelli – come si è tante volte detto – non inferiori, quanto a narratività, a veri e propri racconti. Se non proprio come Freud, anche Sacks è stato piuttosto prolifico: tra i suoi libri più noti, L’uomo che scambiò sua moglie per un cappello (1986), Su una gamba sola (1991), Un antropologo su Marte (1995), L’isola dei senza colori (1997), Allucinazioni (2013).
La materia dell’anima
Quel che insegna l’esperienza di Sacks è che questa profonda interrelazione tra la professione medica e la vocazione letteraria non va semplicemente ricondotta alla sua personalità poliedrica e multiforme. Certamente anche questo aspetto ha giocato un ruolo importante: Sacks ha coltivato forti passioni fuori dalla neurologia, prima di tutto per la chimica – della quale ha parlato nella sua autobiografia Zio Tungsteno – Ricordi di un’infanzia chimica (2002), poi per la musica, ben identificabile in uno degli ultimi libri: Musicofilia (2008). Tuttavia, proprio come i «racconti» di Freud erano in qualche modo intrinseci alla sua concezione della psicoanalisi, così l’interazione che lega in modo inscindibile la pratica medica di Sacks e i suoi racconti letterari ha la sua prima e più profonda ragione d’essere nella concezione che aveva dell’uomo e delle neuroscienze.
Sul primo fronte, c’è da sottolineare la notevole importanza culturale che i testi di Sacks hanno avuto nella loro capacità di scuotere convinzioni secolari. In linea con un modo di pensare che oggi ha quasi lo statuto di un vera e propria ortodossia negli ambienti filosofici e scientifici (ma che non era affatto tale quando Sacks cominciò a sostenerlo già negli anni Settanta del secolo scorso), l’Io non è una cosa, una sostanza, un’anima immateriale che alberga nell’uomo. Tuttavia dice il neurologo Sacks, l’io non è nemmeno riducibile al cervello, alle sue connessioni neurali, a qualche area cerebrale. È piuttosto una narrazione, un insieme più o meno integrato e coerente di storie che ciascuno di noi racconta a se stesso e agli altri per comprendersi e interagire: dunque, per dare senso al passato, al presente e al futuro. Per capire chi si è, quali sono i nostri valori, dove puntano i nostri scopi.
L’Io non è l’anima, né la rete neurale che la implementa: è la storia che noi stessi non smettiamo mai di riscrivere con l’aiuto e la complicità degli altri. Tanto che, come ormai dimostrano numerosissimi studi sperimentali, tra l’esigenza di corrispondere alla realtà e l’esigenza di raccontare una storia di noi accettabile e soddisfacente, propendiamo verso la seconda istanza, anche se si tratta di tacere, reinterpretare, inventare interi spezzoni di vita.
È dunque evidente che se l’io è una storia (o meglio, come va di moda dire oggi, il centro di gravità narrativa delle storie che lo costituiscono), il neurologo che si confronta quotidianamente con le sindromi e le patologie neurologiche ha l’occasione di assistere a storie straordinarie, così fuori dal comune che premono per essere raccontate e divenire patrimonio di tutti. Proprio questo ha fatto Sacks: interpretare, restituire e condividere ciò che vedeva. In quello che molti considerano il suo libro più riuscito, L’uomo che scambiò sua moglie per un cappello, ventiquattro casi esemplificano le più disparate sindromi e patologie dando vita a esistenze così incredibili che solo l’autorità della scienza può garantirne la veridicità. Scegliendo a caso, prendiamo il terzo racconto, quello della Disincarnata: è la storia di una giovane donna in perfetta forma fisica che a seguito di un’infezione perde completamente la propriocezione, la capacità di avvertire l’appartenenza al proprio corpo attraverso il flusso di informazioni inconscio e automatico che proviene da muscoli, tendini e articolazioni. Il danno è così profondo che, come rivela la donna stessa, le accade di perdere le braccia, cioè di crederle in un posto mentre sono in un altro. Di punto in bianco, allora, la sua storia diviene quella formata da tutti gli espedienti artificiali a cui deve ricorrere per rendere la sua vita «possibile, ma non normale». Per esempio, sostituire fin dove può la propriocezione con la vista: se chiude gli occhi si accascia senza forza nei muscoli.
Se, dunque, l’Io è una trama di storie sempre in fieri, ne deriveranno precise implicazioni sulla concezione delle neuroscienze. Anche qui l’influenza di Sacks ha rappresentato, insieme a molti altri fattori, un elemento importante nello scardinare quello che chiama il paradigma «computazionale e meccanicistico» della neurologia classica e che negli anni Settanta e Ottanta si incentrava sull’analogia tra cervello e computer. Sentiamo quel che Sacks dice nell’Uomo che scambiò sua moglie per un cappello: «Certo il cervello è una macchina e un elaboratore, e la neurologia classica ha perfettamente ragione. Ma i processi mentali, che costituiscono il nostro essere e la nostra vita, non sono soltanto astratti e meccanici, sono anche personali; e in quanto tali implicano non solo la classificazione e l’ordinamento in categorie, ma anche una continua attività di giudizio e di sentimento».
Modelli poveri
Per questo una teoria della mente completa, capace di rendere trasparenti le relazioni fra eventi cerebrali ed esperienza cosciente, deve essere molto lontana dai modelli computazionali, in quanto deve rendere conto della realtà biologica del cervello, dei dettagli anatomici, funzionali e di sviluppo del sistema nervoso, della vita mentale costituita da «una girandola di percezioni, sensazioni, sentimenti, intenzioni».
Sacks riteneva un ottimo candidato per questo ruolo il darwinismo neurale di Gerald Edelman, in grado a suo avviso di conciliare, in una visione emergente dell’io quale prodotto dell’autorganizzazione, i fatti dell’evoluzione, dello sviluppo neurale e della neurofisiologia con i fatti della neurologia e della psicologia. In ogni caso, il suo principale contributo alle neuroscienze non va individuato tanto nella sistematizzazione teorica, quanto nella capacità di corroderne dall’interno l’impostazione meccanicistica e computazionale. In questo senso, l’attuale impostazione delle neuroscienze, caratterizzata da una sempre più ampia attenzione allo studio della dimensione sociale, affettiva, emotiva, personale e culturale dell’io, deve molto al lavoro di Sacks, alle sue intuizioni anticipatrici, e soprattutto alla sua abilità difficilmente replicabile di concretizzare queste intuizioni in racconti dal valore esemplare.
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