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La scommessa (vinta) di Jazz is Dead!

La scommessa (vinta) di Jazz is Dead!Brandon Seabrook trio – foto di Amalia Fucarino

Musica Tre giorni di maratona negli spazi del Bunker, tra un tendone da circo e un capannone dismesso: suoni non ordinari in contesti non ordinari.

Pubblicato più di un anno faEdizione del 30 maggio 2023

Sesta edizione per il festival torinese Jazz Is Dead!, scommessa vinta di mettere insieme pubblici, generazioni e generi musicali diversi, con il bonus dell’ingresso gratuito. Tre giorni di maratona negli spazi del Bunker, tra un tendone da circo e un capannone dismesso: suoni non ordinari in contesti non ordinari. Il direttore artistico Alessandro Gambo lo chiarisce dall’inizio: ”Non importa chi siamo. Siamo jazz, metal, minimalisti. Siamo museo, planetario, mal di testa, male alle orecchie.” Aprono Leya, duo da New York che con arpa, voce e violino ammalia con il suo avant-folk da camera tra Scott Walker, Antony e Dirty Projectors. Poi tocca alla canadese Sarah Davachi che avvolge coi suoi droni plananti, con l’unica pecca di un volume non adeguato e una coda che rompe il monolite facendo perdere un po’ di magia. Idee fondanti della rassegna sono variazione,schizofrenia, contaminazione: ecco allora l’elettronica scura e catartica su panorami da una catastrofe di Pan Dajing, dove l’elemento performativo talora sovrasta quello musicale. Il giorno dopo si riparte da Marlene Ribeiro, autrice dell’ottimo “Toquei No Sol” e portatrice di un’idea di canzone dilatata, sussurrata, sottilmente allucinata: kalimba, loop, tamburi remoti di un futuro intimo e lontano, un ritmo afrobrasiliano, un carillon. Un incanto simile a quello che ci aveva rapito ai tempi del primo disco delle Cocorosie. Il nostro viaggio (impossibile seguire tutto) prosegue con C’Mon Tigre, la risposta mediterranea a Cinematic Orchestra: una raffinata caramella pop intrisa di zuccheri di varia provenienza: bastimenti carichi di spezie afrobeat, ethio-jazz, desert blues. Lounge di buona fattura ma troppo seduta nel groove.

LA DOMENICA si ricomincia nel tendone con Orchestra Pietra Tonale, un collettivo ad assetto variabile che si presenta con doppia batteria, basso, chitarra, elettronica, sezione fiati, archi e voce. Più interessanti nei momenti aperti e ambientali, meno negli sviluppi un po’ fracassoni che non sfruttano a dovere le possibili profondità offerte dalla dimensione orchestrale. La cosa notevole della kermesse è che fino all’ultimo giorno di jazz non si è sentito nulla; del resto, come diceva Duke Ellington, esistono solo due generi di musica: quella bella e quella brutta. Ottima nel caso di Three Tsuru Origami, il trio del trombettista Gabriele Mitelli, anche a voce, sax soprano ed elettronica, con gli inglesi volanti John Edwards al contrabbasso e Mark Sanders alla batteria. Avant-jazz ispido e pulsante mosso da uno swing tutto interiore. Miglior live in assoluto quello del Brandon Seabrook Trio, un travolgente guazzabuglio impro noise punk dove il diddley-bow (basso a una corda) di Cooper-Moore ruba la scena ma è il leader a colpire al cuore con l’eclettismo selvatico della sua chitarra e il suo implausibile e acidissimo banjo free. Una miscela altamente esplosiva di mille stimoli che coinvolgono anche blues, country, funk e gospel. La tre giorni per noi finisce con gli acclamati Moin, ovvero gli inglesi elettronici Raime accompagnati dalla batterista Valentina Magaletti: chitarra, basso, drumming, basi e interferenze per un post punk virato antrace, ossessivo e matematico, una formula semplice e chirurgica, con aperture noise iniettate di dub. Tutto il pubblico annuisce e qualcuno, anche tra i cronisti, balla, guidato inesorabilmente dal ritmo. La festa avrà un’appendice con Irreversibile Entanglements (3 giugno) e Mabe Fratti (9 giugno). 8000 persone sanciscono il meritato successo di un festival eclettico, dove si parlano tante lingue, dal respiro internazionale.

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