La scommessa di raccontare liberamente se stessi
Cinema Incontro con Manelle Zigh, una delle protagoniste di «Un film dramatique» di Eric Baudelaire. In concoso a Filmmaker Festival, il documentario è filmato dagli studenti di una scuola media alla periferia di Parigi
Cinema Incontro con Manelle Zigh, una delle protagoniste di «Un film dramatique» di Eric Baudelaire. In concoso a Filmmaker Festival, il documentario è filmato dagli studenti di una scuola media alla periferia di Parigi
«Un film è come una leggenda, è una storia inventata dove puoi mettere dentro tutto quello che vuoi. Un film non è come una foto che fotografa delle cose reali. In un film possono esserci persone che non sono mai esistite». Vero, non vero, opinabile? Poco importa perché sono queste parole, pronunciate da un bambino di circa dieci anni, che il regista Eric Baudelaire sceglie per presentare Un film dramatique in concorso a Filmmaker Festival 19 a Milano e proiettato oggi alle 17,30 al cinema Beltrade.
Girato nell’arco di quattro anni con gli studenti della scuola media Dora Maar alla periferia di Parigi vicino a Saint Denis, e quindi banlieue che equivale a un marchio di zona non facile, Un film dramatique nasce da un’idea di Baudelaire che, invece di limitarsi a gestire un workshop di pochi mesi che avrebbe dovuto concludersi con un saggio, propone ai ragazzi un percorso molto più complesso e articolato e cioè di mettere nelle mani dei ragazzi la macchina da presa per raccontarli e raccontarsi.
NE NASCE un girato di 200 ore, poi montate da Claire Aterthon in 114 minuti, nei quali gli studenti si raccontano facendosi filmare e filmando loro stessi se stessi, gli spazi in cui vivono e studiano, i gesti quotidiani, il quartiere dove abitano, le storie personali, le discussioni sul razzismo, la nazionalità, le origini, gli attentati in un flusso lungo quattro anni durante i quali sono protagonisti e artefici e si vedono crescere e cambiare. In quest’opera collettiva che si forma giorno per giorno i ragazzi sono stati liberi di filmare ciò che il momento e il desiderio suggerivano loro al di fuori dell’autocelebrazione dei selfie. «È un film sperimentale in cui ognuno è stato libero di inventare il proprio linguaggio anche confrontandosi con gli altri», ha detto Baudelaire.
Ma che cos’è e che cosa ha significato per loro quell’esperienza? Manelle Zigh, una delle studentesse che hanno partecipato al progetto e che è venuta a Milano per la proiezione, ha ora quindici anni e nella sua sconfinata timidezza dice con un filo di voce: «Abbiamo filmato la nostra vita reale». E che cos’è la vita reale? «Quello che viviamo ogni giorno».
PER TROVARE una risposta bisogna dunque tornare al film dove, sentendosi liberi e non interrogati o indagati, i ragazzi si raccontano nella loro verità. L’eccezionalità di Un film dramatique sta proprio nella spontaneità del racconto che abbatte le barriere e la finzione permettendo allo spettatore di condividere delle esperienze di crescita senza mai diventare voyeuristica.
E così i pezzi di città, le gite al mare, la Tour Eiffel, i ritratti intimi, il trasferimento di una compagna all’isola della Reunion, la compagna che cucina la pasta spezzando gli spaghetti in tanti pezzetti, l’esperimento con il fuori sincrono, le zoomate, i primi piani, la noia, il ritorno di uno di loro in Romania per le vacanze natalizie con la videocamera che balla nel buio mentre cammina sulla neve diventano patrimonio di tutti, di loro che parlano di se stessi e di noi che li guardiamo. Non importa se Manelle e i suoi compagni sanno o no costruire una teoria su quel lavoro durato quattro anni. Ciò che conta è che l’hanno vissuta e solo il tempo potrà dire quanto li ha formati.
Il film stesso, d’altra parte, è un divenire che mostra i ragazzi in momenti diversi, qualcuno si vede meno, altri rimangono, tutti cambiano. Riguardando oggi il film Manelle dice: «Non mi piacevo, ma me ne sono accorta solo rivedendomi. Allora non me ne rendevo conto. Oggi invece mi trovo bella».
E poi arriva il piccolo colpo di scena, qualcosa che per Manelle è una specie di segreto. «Mi piace la boxe. La gioco da quando ho otto anni. L’ho scelta perché mi permette di tirare fuori ciò che in me è molto nascosto». Ma nel film non si vede mai. Non c’è nessun momento in cui Manelle parla di questa sua passione. «Lo so – dice – L’ho fatto apposta perché è una cosa personale e volevo che restasse solo mia».
RITORNA quindi la domanda iniziale. Che cos’è un film? Un documentario? Una fiction? Il racconto della vita reale? Un percorso? Una scoperta? O, come ha svelato Manelle, una narrazione parziale? In questo caso è Un film dramatique.
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