La scienza inesatta della crisi
Saggi «Rischio e previsione» di Francesco Sylos-Labini per Laterza. L’uso dei modelli matematici per spiegare i fatti economici ha avuto una sconfessione nel 2008. Eppure tutto procede come se nulla fosse accaduto
Saggi «Rischio e previsione» di Francesco Sylos-Labini per Laterza. L’uso dei modelli matematici per spiegare i fatti economici ha avuto una sconfessione nel 2008. Eppure tutto procede come se nulla fosse accaduto
A scrivere «non tutto quel che conta può essere contato» fu il sociologo William Bruce Cameron. La citazione però ha iniziato a circolare quando fu attribuita (erroneamente) ad Albert Einstein. Evidentemente, che uno studioso di scienze umane diffidi dei numeri non fa abbastanza notizia: ci vuole, se non proprio Einstein, uno scienziato abbastanza «hard» che sappia diffidare del diluvio di cifre dispensate dai media su qualunque argomento, dalla borsa al meteo. Fa dunque al caso nostro il volume Rischio e previsione. Cosa può dirci la scienza sulla crisi appena pubblicato da Laterza (pp. 246, euro 24). Lo ha scritto Francesco Sylos-Labini, fisico teorico al Centro Studi Enrico Fermi e fondatore del sito www.roars.it, frequentata rivista online dedicata all’analisi delle politiche della ricerca.
Epidemie sovrastimate
Per «ascoltare la scienza» basta rimpinzarsi di grafici e dati? C’è in effetti chi, come il «guru» informatico ed ex-direttore di Wired Phil Anderson, ritiene che il metodo scientifico sia stato reso obsoleto dai big data – l’enorme mole di dati originata dalle molte attività di monitoraggio ambientale e dei comportamenti sociali. Per studiare un fenomeno come la diffusione di un’epidemia nella popolazione, non c’è bisogno di esperti che elaborino modelli da verificare con i dati, sostiene Anderson. Basta studiare le correlazioni statistiche, cioè la coincidenza tra eventi di cui non si conosce la relazione causa-effetto, per formulare previsioni accettabili.
Purtroppo, non funziona. L’algoritmo Google Flu Trends, messo a punto per anticipare la diffusione dell’epidemia influenzale e le necessarie contromisure, in passato ha sovrastimato il numero di casi reali di infezione del 50% e oggi ha cessato di pubblicare le sue stime. È il rischio che si corre quando «si fa uso di dati non strutturati», cioè non «prodotti appositamente per un certo scopo ma raccolti con strumenti automatici dalla rete». Ma ascoltare la scienza non significa semplicemente accumulare un sacco di dati. Se poi abbiamo a che fare con fenomeni complessi, come quelli che Sylos-Labini studia quotidianamente, l’impossibilità di prevederne l’evoluzione è ineliminabile.
Frustrazione da dati
I terremoti e il tempo meteorologico sono due esempi di scuola: le previsioni che se ne possono trarre hanno un valore statistico limitato. La sproporzione tra la mole di dati e capacità predittiva è spesso frustrante e acquista crescente importanza la comunicazione di questi dati, soprattutto se implica decisioni politiche nel campo energetico o della protezione civile. Occorre dunque «sapere a cosa serve una particolare previsione per meglio rispondere ai bisogni degli utenti». Tutte informazioni che i dati, da soli, non ci dicono.
Ma se le scienze naturali si sono almeno interrogate sui limiti della nostra capacità di effettuare previsioni a partire da dati empirici, non altrettanto si può dire per le scienze sociali. Anzi, avverte Sylos-Labini, nel caso dell’economia cifre e formule sono usati soprattutto per avvalorare tesi politiche, più che per comprendere lo stato dei mercati e dei loro protagonisti. Lo dimostra la perdurante incapacità degli economisti più blasonati nel prevedere le crisi economiche sistemiche. «L’impatto sull’economia più generale e sui mercati finanziari dei problemi nel mercato supbrime probabilmente sembra essere contenuto», disse nel 2007 l’allora presidente della Banca Centrale americana Alan Greenspan. Non si è fatto un gran passo avanti da quando Irving Fischer dichiarò «I prezzi delle azioni hanno raggiunto quello che sembra essere un elevato livello permanente», tre giorni prima del crollo del 1929. Al cuore di questo insuccesso c’è la scuola economica neoclassica, basata sulla tesi che un mercato raggiunga spontaneamente un punto di equilibrio, in presenza di attori economici razionali, indipendenti ed egoisti. Il prestigio intellettuale della teoria neoclassica è stata accresciuta da un formalismo matematico rigoroso. Tuttavia, uno dei suoi testi sacri, i Fondamenti dell’analisi economica di Paul Samuelson, consiste in «oltre 400 pagine fitte di formule matematiche» in cui «non vi è menzione di alcun dato empirico».
«L’economia neoclassica, a differenza della fisica, non ha raggiunto attraverso l’uso della matematica alcuna spiegazione precisa o previsione di successo», dice Sylos-Labini. L’abbondanza di cifre e formule, dunque, non è un antidoto contro la crisi, ma rischia di diventarne un presupposto. Essa ha fornito «la giustificazione alla massiccia deregolamentazione finanziaria negli anni Ottanta e Novanta». Il predominio dell’economia neoclassica non è dunque dovuto ad un pugno di economisti fortunati, ma ad una lenta costruzione di egemonia sui media e nelle istituzioni accademiche anglosassoni, in cui il pluralismo delle scuole di pensiero economico è scoraggiato.
La stessa deriva rischia di allargarsi ad altri campi della scienza. Anche in Europa si è diffusa la passione per le classifiche universitarie, alla ricerca delle «Harvard» nostrane. Eppure, i punteggi assegnati agli atenei spesso mescolano pere con patate: che senso ha confrontare università d’élite statunitensi in cui si spendono 100 mila euro a studente, e le cui rette rappresentano una bolla finanziaria prossima allo scoppio, con gli atenei europei, in cui si investe dieci o venti volte di meno? Alla rincorsa di questa «eccellenza», anche in Europa i finanziamenti pubblici sono stati concentrati su pochi ambiti di ricerca.
La biodiversità della ricerca
La storia della scienza, tuttavia, insegna che le scoperte importanti sono spesso impreviste, frutto di un brodo di coltura più che di un investimento mirato. Invece, legioni di giovani ricercatori spendono gran parte del loro tempo a redigere progetti che hanno sempre meno possibilità di essere finanziati. Ciò sta riducendo anche da noi la biodiversità dell’attività di ricerca. Proprio quando i dati, a saperli leggere, suggerirebbero il contrario a chi detta le politiche della ricerca. «La flessibilità e l’adattabilità, derivanti da una maggiore diversificazione, sono gli elementi essenziali della competitività». La scienza può allora dirci molto sulla crisi. A patto di saperne ascoltare tutte le voci.
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