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La scena borghese dei sentimenti sotto la Madunina

La scena borghese dei sentimenti sotto la MaduninaFrancesco Hayez, «Imelda de Lambertazzi», 1853, collezione privata

A Novara, Castello Sforzesco L’immaginario della città ambrosiana dal Romanticismo alla Scapigliatura: vedute e interni, le passioni risorgimentali si alterano in ricostruzioni meticolose e morbide pennellate

Pubblicato quasi 2 anni faEdizione del 11 dicembre 2022

Al Castello Sforzesco di Novara, ora è un anno, venne mostrato il mito d’una città, la Serenissima, nel florilegio dei più bei pittori che l’avevano ritratta. Erano vedute d’ampi canali di campagna, di specchi d’acqua e di luminarie al cui limpido fuoco si struggevano gli ultimi avanzi del colorismo veneto: talora si vedevano piazze trabocchevoli di un popolino minuto, che, sparpagliato nel ciangottio dei mercati, sfogava in perpetuo quella sua natura ciarliera e industriosa, talaltra erano variopinti cortei e processioni sacre coi bucintori pavesati a festa, o ancora figure di donne in tacita devozione.

Tanto diverso fu, invece, l’immaginario che caratterizzò in quello stesso XIX secolo Milano, come si vede in Milano. Da romantica a scapigliata, organizzata (a cura di Elisabetta Chiodini, catalogo Skira) negli stessi spazi di un anno fa e visibile fino al 12 marzo prossimo. Come lì era, soprattutto, la varietà della vita popolare, la vivacità della folla sparsa per i calli o curva sulle zattere a essere ritratta, così qui, in un lusso cromatico più attenuato, predominano gli interni, la mestizia delle soffitte, i congedi dei soldati, il patimento degli afflitti, smunti dalla miseria, fra povere mura – soggetti nei quali la meticolosità pittorica s’unisce al sentimentalismo in un modo che fa pensare a un Greuze rifatto alla fiamminga –, per lasciar più avanti il posto alla ritrattistica, aristocratica e borghese.

Eppure, gli incontri fra queste due scuole, la veneta e la lombarda, non furono rari. Anzi, almeno fino a che esistette, cioè per buona parte dell’Ottocento, la comune appartenenza al Regno Lombardo-Veneto favorì gli scambi. E se un artista e scenografo come Giovanni Migliara operò soprattutto a Milano, il cui Duomo fu da lui reso in un’austera pasta pittorica (L’arrivo della processione nel Duomo di Milano; Veduta di piazza del Duomo), artisti come Francesco Hayez o Giuseppe Canella lavorarono tanto nell’una quanto nell’altra città. Lo stesso Migliara, d’altra parte, a dispetto d’una certa severità adamantina delle sue vedute, che dava particolare risalto al pregio architettonico degli scorci, era stato influenzato dal morbido colorismo di Guardi e dal Canaletto.
Migliara fu pittore di vedute, e a questo genere d’arte si dedicarono anche Canella e Bisi, che di Migliara fu considerato l’erede. Il mutare dei gusti e degli orientamenti portò, tuttavia, anche a un cambiamento nella maniera di rappresentare gli scorci cittadini. Quando pensiamo all’Ottocento, specialmente a quello italiano, la nostra mente corre a quelle piccole scenette di vispo realismo che costituirono l’ossatura del nostro romanticismo. Ora, questa predilezione è la stessa che determinò l’originalità delle vedute d’Angelo Inganni, nelle quali lo sguardo del pittore è sceso, se non proprio a livello della strada, diciamo almeno a quello del loggiato. Ciò si può osservare facilmente nella Veduta di piazza dei mercanti a Milano, con i due ragazzacci che s’azzuffano, il gruppo di signore coi bambini e i gentiluomini in tuba che scrutano alcuni disegni; o ne La Colonna di San Martiniano al Verziere sotto la neve, godibile, non soltanto nell’insieme, come avveniva nel passato, ma anche nei piccoli saporosi quadretti che i personaggi vanno creando nelle diverse porzioni della tela.

Realismo gradevole, non già risentito, che portava in sé i germi del Biedermeier. Il passo successivo fu la pittura di genere dei fratelli Induno, Gerolamo e Domenico, le cui opere hanno titoli che potrebbero prestarsi a intestare i capitoletti di un romanzo: Pane e lagrime, Nello studio del pittore, Il ritorno dal campo, La fidanzata del Garibaldino. Sappiamo che alcuni di questi lavori piacquero a Théophile Gautier, ma possiamo presumere che un quadro come Il ferito visitato dai suoi parenti di Gerolamo Induno non sarebbe spiaciuto nemmeno a Diderot, che forse v’avrebbe ritrovato un po’ dello spirito del Greuze. Spirito borghese, s’è detto, Biedermeier quasi, perché le passioni risorgimentali, invece che deflagrare sulla scena, si riverberano, attenuate, sui volti di chi resta – spose, figlie e fidanzate.

Poi anche questo tempo trascorse. Le stampe di Garibaldi, ai quali le belle avevano vòlto lo sguardo come a moderni Cincinnati in tanta pittura del secolo, s’accantonarono fra le vecchie carabattole, da dove le avrebbe tratte un giorno Gozzano. Ma qualcosa di quella sentimentalità vaga e soffusa, di mite romanticismo borghese, fattasi esacerbata e un po’ morbida, sarebbe rimasta nella pittura di Tranquillo Cremona e di Daniele Ranzoni che possiamo ammirare nelle ultime sale. Poco prima avevamo contemplato con stupore due magnifici ritratti di Giovanni Carnovali, detto Il Piccio, quello di Gina Caccia e di Clara Carminati – due capolavori tracciati dal moto d’una pennellata soffice e ariosa, come soffiati –, adesso guardiamo Giovinetta inglese, Ritratto di giovinetta, o ancora il Ritratto della signora Pisani Dossi di Ranzoni, dov’è appunto il genere di sensualità idealizzata e adolescenziale che proprio Dossi, nei suoi Amori, tratteggiò con ironia lieve di poeta. E un amore simile il Ranzoni lo patì veramente sulla propria pelle nell’infelice relazione con Flora Biraghi, «sensibile lui, sensibilissima lei», come giustamente osservò Eugenio Gara. «Daniele scrivimi presto – diceva nelle lettere la Biraghi –, ne’ miei sogni ti vedo ora sul lago in burrasca in preda ai venti, ora seduto facendo il ritratto della signora Cor… ammirandola un pochino troppo»; e via di questo passo.

Un’eguale intonazione, lirica e struggente – il tono del romanticismo domestico – hanno le tele di Cremona, La visita al collegio, I tre amici, In ascolto e, soprattutto, La melodia, la cui musica non conosciamo, ma, mentre guardiamo la fanciulla seduta al piano, tornano alla fantasia le note della Loreley o della Wally di Alfredo Catalani, nelle quali pure si consumava, quasi in languidi avvolgimenti onirici, la sensibilità d’un romanticismo tormentato.

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