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La scelta del ruolo nella propria leggenda

La scelta del ruolo nella propria leggenda

Folk-singer zen Per Leonard Cohen la canzone non è altro che una forma poetica adatta a soddisfare esigenze particolari e contingenti: una scelta di interviste 1966-2013, curata da Jeff Burger: «Il modo di dire addio», dal Saggiatore

Pubblicato quasi 7 anni fa

«Mi sentirai ancora, piccola, molto dopo che me ne sarò andato / ti parlerò dolcemente da una finestra nella Torre della Canzone», cantava Leonard Cohen, quasi una ventina di anni fa, in Tower of Song, sicuro, come lo Charles Trenet di L’âme des poètes, che «molto, molto tempo dopo che i poeti sono scomparsi / le loro canzoni corrono ancora per le strade». La profezia si rivela azzeccata: nel primo anniversario della sua morte, e a cinquant’anni dall’uscita del suo primo album, Songs of Leonard Cohen, mentre dagli Stati Uniti viene annunciata una raccolta di scritti postumi, The Flame, da noi esce un corposo volume di «conversazioni sulla musica, l’amore, la vita», intitolato Il modo di dire addio (traduzione di Camilla Pieretti, Il Saggiatore, pp. 651, euro 28,00).

È una raccolta di interviste che coprono l’arco temporale 1966-2013, curata da Jeff Burger e apparsa in America nel 2014: mentre il titolo italiano sembrerebbe suggerire una serie di riflessioni sull’accettazione della fine e di meditazioni sui sentimenti, la musica e l’esistenza dell’ultimo Cohen – il Grande Vecchio della canzone d’autore, modesto nella sua notevole cultura, maestro di stile e equilibrio interiore – il titolo originale, meno suggestivo ma in ultima analisi più calzante, Leonard Cohen on Leonard Cohen rimanda al composito ritratto dell’artista canadese, attraverso interviste rilasciate nell’arco di quasi mezzo secolo.

Un autore minore, con orgoglio
A parlare non è, dunque, il Cohen ottantaduenne di You Want it Darker, ormai pronto a «lasciare la tavola» per «viaggiare leggero» verso l’oscurità estrema (come canta in quella sorta di avvicinamento musicale alla morte che è il suo ultimo disco), bensì lo scrittore poco più che trentenne deluso dalle reazioni critiche al suo secondo romanzo; il poeta che ha appena dato alle stampe la controversa raccolta Flowers for Hitler, dove – secondo le sue stesse parole – si ispira a Primo Levi, che «prende la mitologia legata ai campi di concentramento e te la piazza sotto il naso, come a dire: “Ecco cosa ci facciamo gli uni con gli altri”».

C’è poi il letterato in crisi che si affaccia alla canzone per motivi meramente economici e il folk-singer a cui il successo non porterà se non una depressione durata quasi sei decenni; ci sono, infine, il monaco zen e il «piccolo ebreo che ha scritto la Bibbia». Tutte le «leggende» che Leonard Cohen si è cucito addosso («È importante / capire che ruolo si recita in una leggenda», scriveva, non per caso, in una poesia giovanile) si ritrovano in questo volume, che restituisce l’immagine di un grande artigiano della parola, prima ancora che un celebrato autore di canzoni.

«Mi considero uno scrittore minore. Il mio non è un banale esercizio di modestia, perché adoro gli scrittori minori», si legge in parole estrapolate da alcune interviste, non ripubblicate per intero. E in una conversazione del 1976 con un giornalista inglese, ribadisce: «posso parlare solo delle cose che conosco, e non conosco altro che il mio piccolo angolino. Ci sono autori che sono veri visionari, in grado di descrivere grandi movimenti e cose del genere. Quelli sono i grandi scrittori, io appartengo all’altra categoria».

Va considerata in questa ottica anche la candida risposta di Cohen a chi gli domanda il perché del suo passaggio dalla poesia e dalla narrativa alla canzone: «Non ho mai notato la differenza». Per Cohen la canzone è infatti niente altro se non una forma poetica che soddisfa particolari, immediate, esigenze. «Credo che le canzoni siano fatte innanzitutto per corteggiarsi, per trovare il proprio compagno», afferma, e continua, «Per evocare l’amore, per guarire notti spezzate, per accompagnare tutte le attività della vita. Che non è un compito affatto misero né squallido. Penso sia importante che rispondano a queste esigenze, invece di guardare a sé in termini di sperimentazione su forme e materiali».

Sempre e comunque, quel che è importante è prendere in considerazione solo ciò che si conosce, nella consapevolezza che «non sono le canzoni a dare dignità all’attività umana, ma l’attività umana a conferire dignità alle canzoni». Pertanto, alla domanda che gli viene più volte posta circa la disperazione di cui sembrano saturi certi suoi brani, Cohen può rispondere insistendo sul fatto di dare voce a quanto ha conosciuto, e d’altro canto insistendo sull’effetto terapeutico indotto dal rispecchiarsi in una canzone di chi attraversa periodi bui: «Ho sperimentato la vera depressione», confida in un’intervista degli anni Novanta, «molte delle mie canzoni nascono da quell’esperienza … molti non vogliono sentire quel genere di sonorità nella musica o nella voce di un uomo … Ma se è una situazione che si conosce già, aiutano a superarla».

Allo stesso modo, in un’intervista rilasciata all’uscita del suo libro Morte di un casanova, spietato atto d’accusa contro il matrimonio e, al tempo stesso, lamento accorato e denso di (auto)recriminazioni per la rottura definitiva con la madre dei suoi figli, Cohen ammette che la nascita dei bambini lo ha spostato dal centro della scena per portarlo finalmente a comprendere come, invecchiando, sia prudente «porre dei limiti al proprio ego». E conclude affermando: «un poeta… se si sente importante, non otterrà mai niente». Un poeta – dice di sé – non un cantautore: e, infatti, è questa l’immagine che emerge da Il modo di dire addio, più di seicento pagine di interviste in cui si parla, sì, di canzoni, ma molto di più di questioni esistenziali, problemi personali – l’amore e la vita che compaiono nel sottotitolo italiano – e, nel senso più ampio e più nobile del termine, di scrittura.

Prefazione di Suzanne Vega
Viene allora spontaneo domandarsi come mai l’editore abbia fatto precedere l’introduzione di Suzanne Vega e la prefazione del curatore americano da una lettera alquanto superflua in cui Francesco Bianconi definisce il Cohen degli anni Sessanta, autore di un romanzo seminale come Beautiful Losers, «uno scrittore, per certi versi fallimentare», pur lodando il cantautore con espressioni che a tratti appaiono quasi una brutta copia del linguaggio poetico coheniano. E lascia perplessi la rappresentazione offerta, ancora da Bianconi, di un Cohen ritroso, che non amava farsi intervistare, quando è vero, invece, che, come afferma nella prefazione il curatore del volume, Jeff Burger, (il cui nome, al contrario di quello di Bianconi, non è neppure indicato sulla copertina) Cohen alternava momenti di silenzio e di scomparsa dalla scena pubblica, a fasi in cui concedeva interviste a chiunque, persino a chi si presentava senza preavviso a casa sua: merito di Burger è proprio aver operato una scelta significativa in questo mare magnum.

Ne scaturisce il ritratto di una personalità a volte contraddittoria, le cui risposte, ironiche, sarcastiche e non sempre affidabili nei primi decenni della carriera, si fanno via via più aperte, sincere, mentre una per una cadono le maschere calzate nel corso del tempo. «Non ho mai avuto occasione di incontrarlo di persona, ma, dopo aver letto le interviste e i documenti contenuti in questo libro, mi sembra di aver trascorso molti anni e molte ore rivelatrici in sua compagnia. Credo sarà lo stesso per voi», conclude Burger. È impossibile, in effetti, non concordare.

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