La sana follia del rock è anche la sua medicina
Visioni

La sana follia del rock è anche la sua medicina

Pierfrancesco Capovilla e i Cattivi Maestri – Mauro Lovisetto

Incontri Pierpaolo Capovilla e i Cattivi Maestri, nuova band e ponimo album per l'ex Teatro degli Orrori. «La guerra è la regola del sistema economico in cui viviamo. Provo rammarico per l’attuale clima bellicista nel discorso pubblico»

Pubblicato più di 2 anni faEdizione del 22 aprile 2022

Conosco questo lavoro da quando ha iniziato a prendere forma, ne ho ascoltato il principio, l’evolversi, le variazioni, i dubbi, com’è stato concluso, ho assistito alle prove della band tante volte, mi sento un privilegiato. Nel riascoltarlo dopo qualche mese per scrivere questo pezzo, temevo potessi ritrovarlo invecchiato, come capita con gli album che sfioriscono all’improvviso per essere stati troppo consumati. Invece il disco di Pierpaolo Capovilla e i Cattivi Maestri (Garrincha Dischi) in uscita il 27 maggio ha un’identità che rompe con il presente effimero della musica rock, mantenendo energia e significati, dieci pezzi immediati, ma potevano essere di più, ve ne accorgerete nei live. La band ha alla chitarra Egle Sommacal, storico chitarrista dei Massimo Volume che raramente si è concesso ad altre collaborazioni e qui, insieme a Fabrizio Baioni (Leda) alla batteria e Federico Aggio (Lucertolas) al basso, ha messo la sua cifra stilistica con chitarre taglienti, quanto melodiche nelle trame più intimistiche. Capovilla ha sempre legato le sue canzoni alla militanza politica, alla narrazione dei diseredati, dei più deboli e dei loro aguzzini, questo disco non fa differenza, anzi, la copertina con l’iconografia del Sacro Cuore di Gesù, all’interno del cuore falce e martello, opera del pittore Vasco Hadzovich, un romaní, parla da sé.

Il palcoscenico, il concerto dal vivo, è ciò che più di ogni altra cosa mi fa sentire vivo, e non c’è niente da fare.

In questi due anni di pandemia molti gruppi si sono sciolti, tanti artisti hanno abbandonato. Ci siamo sentiti spesso e non sempre eri di buon umore, qualche volta ho creduto che volessi mollare

C’ho pensato eccome. A cinquant’anni devi fare i conti con la vita, e perseverare con il rock è pura follia. Evidentemente non riesco a guarirla questa malattia, forse perché è la mia medicina. Il palcoscenico, il concerto dal vivo, è ciò che più di ogni altra cosa mi fa sentire vivo, e non c’è niente da fare.

La gestazione del disco è stata lunga, più di tre anni, il tema principale è la guerra, esce purtroppo quando si torna a bombardare civili, una tragica casualità?

Temo non ci sia alcuna casualità. La guerra è la regola del sistema economico e politico in cui viviamo. Dacché son vivo, non ci sono state che guerre. E che rammarico provo in questi giorni, nell’osservare il clima bellicista che si sta imponendo nel discorso pubblico. C’è di che farsi cadere le braccia.
Ogni pezzo potrebbe essere un singolo eppure parrebbe poco «funzionale» al mercato, quasi un concept album rock. Hai sempre tanti riferimenti musicali, vorrei che ne scegliessi due per questo lavoro

Non faccio e non facciamo musica per tutti, questo è sicuro. Il tema è: cosa facciamo quando scriviamo e suoniamo canzoni? Cerchiamo il consenso di un pubblico che desideriamo più ampio che mai, o ci concentriamo sulla composizione nella speranza di contribuire ad un risveglio delle coscienze? Nella domanda, la risposta. I miei punti di riferimento sono molteplici e fra i più diversi, vanno dal Nick Cave di From Her To Eternity, al Pino Daniele di Nero a Metà. Dal primo colgo la disperazione che tiranneggia il mondo, dal secondo la speranza che lo libera e salva.

Il problema, io temo, è cosa non è successo. Siamo sprofondati nel pensiero unico della globalizzazione. Viviamo, io credo, in un’epoca di decadenza dell’impero statunitense, foriera, oggi più che mai, di nuove guerre e sconvolgimenti geopolitici.

Il primo singolo, «Morte ai Poveri», è uscito nella Giornata Internazionale dei rom, sinti e camminanti, il secondo brano si intitola «La guerra del Golfo», Dieci anni è tratto da una poesia del poeta detenuto Emidio Paolucci, ogni canzone centra uno o più argomenti politici. I testi sono incazzati, poetici e con spunti di amara ironia. Ci riporti sempre alla povera gente, le cose peggiorano, la forbice fra ricchi e poveri aumenta, eppure nessuno prende una vera posizione, gli interessi di pochi sembrano l’unica cosa solida.

Il problema, io temo, è cosa non è successo. Siamo sprofondati nel pensiero unico della globalizzazione. Viviamo, io credo, in un’epoca di decadenza dell’impero statunitense, foriera, oggi più che mai, di nuove guerre e sconvolgimenti geopolitici. Tutto ce lo faceva temere, e non siamo stati capaci di opporre una resistenza politica ai processi in corso. Le istanze della società civile al G8 di Genova nel 2001 erano tutte giuste e urgenti, ma non hanno trovato ascolto, e sappiamo bene com’è andata a finire. Vent’anni or sono i nostri giovani, e non solo loro, avevano in mente un futuro diverso per il mondo, un futuro che ponesse dei limiti alla prevaricazione capitalista su donne e uomini e sul pianeta. Oggigiorno, come osserva Marco D’Eramo nel suo recente Dominio, c’è soltanto un futuro percepito dalle masse, la catastrofe.

Tu ed Egle avete lasciato tracce importanti nel rock alternativo italiano, Fabrizio e Federico provengono da esperienze più underground, notevoli ma meno blasonate, nel disco batteria e basso fungono da benzina con cui appiccare il fuoco e poi mitragliare l’ascoltatore. Come mai di tutti i musicisti che conosci nel panorama italiano sei arrivato a questi Cattivi Maestri, e cosa hanno apportato all’idea iniziale del disco che avevi in mente già da tempo?

Le cose accadono anche per caso, senza alcuna orchestrazione cosciente. Il primo che ascoltò i provini delle canzoni, quelli che avevo fatto a casa – letteralmente in cucina – è stato Fabrizio. Eravamo in auto, più o meno tre anni fa, ricordo ancora le espressioni del viso, mi sembrò un bambino di fronte ad un giocattolo inatteso. Tempo dopo avrei chiamato Egle, il chitarrista della scena rock italiana che da sempre stimo di più, nella speranza gli potesse piacere il repertorio, e con una certa mia sorpresa mi disse gli piaceva e che ci avrebbe lavorato. Il suo contributo è stato cruciale nella definizione del suono e dello stile. Federico lo conosco da decenni, e suona il basso come lo suonerei io, diciamo che siamo della stessa «scuola», quella che va dai Jesus Lizard ai No Means No, giusto per spiegarci».

Alle spalle hai una band, Il Teatro degli Orrori, quando si è sciolta ha fatto tanto rumore fra i fan, mi domando che rapporto hai con quei dischi?

Non ascolto mai i miei dischi passati, preferisco dimenticarli e concentrarmi sul futuro.

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