Cultura

La ruggine tossica dell’American Dream

La ruggine tossica dell’American DreamLa morte di Custer in una rappresentazione teatrale del 1905

Philipp Meyer Un’intervista con lo scrittore statunitense, autore di «Ruggine americana» e «Il Figlio». Due avvincenti romanzi sul mito della frontiera e del declino industriale. E svelatori della politica di potenza attuata contro i nativi e all’esterno dei confini nazionali

Pubblicato più di 10 anni faEdizione del 21 marzo 2014

Quando una giornalista del Los Angeles Times gli ha chiesto ironicamente se il fatto di aver abbandonato la scuola a 16 anni lo avesse aiutato a diventare uno scrittore, Philipp Meyer non ha avuto la minima esitazione a rispondere: «è stato il fattore decisivo, solo così ho potuto soddisfare le mie curiosità». Dopo un paio d’anni passati a riparare biciclette e come volontario al Pronto soccorso traumatologico di Baltimora, la città del Maryland, dove è nato nel 1974 – è cresciuto nella periferia operaia di Hampden da una coppia che lui stesso ha definito come «bohemien intellettuali legati alle controculture» -, Meyer è tornato agli studi prima di lavorare a Wall Street. Ha lavorato anche come muratore. Durante l’uragano Katrina a New Orleans, è invece tornato a lavorare in un centro medico.

Nel frattempo, aveva cominciato a scrivere, pubblicando nel 2009, dopo una serie di racconti, il suo romanzo d’esordio, Ruggine americana, salutato come un capolavoro dalla critica statunitense. Quattro anni dopo, grazie ad una borsa di studio e ad una full-immersion nella realtà e nella storia texana, è arrivato Il figlio – appena pubblicato, come il precedente, da Einaudi (pp. 554, euro 20. Sul romanzo ha scritto Fabio Pedone su «Alias della domenica» il 16 marzo) che lo ha consacrato definitivamente anche a livello internazionale. Il New Yorker ha inserito il suo nome nella classifica dei 20 migliori scrittori americani under 40.

Se Ruggine americana raccontava, quasi con le tinte del noir, tanto da meritarsi il plauso di un’autorità in materia come Patricia Cornwell, le drammatiche peripezie di due giovani sbandati, figli della crisi industriale della Pennsylvania – «per oltre un secolo la Mon Valley era stata il centro della produzione siderurgica del paese, anzi, praticamente del mondo intero, ma da quando Poe e Isaac erano nati aveva perso 150mila posti di lavoro: la maggior parte delle città non potevano più permettersi i servizi essenziali» -, Il figlio propone di indagare le origini stesse del national building statunitense. Nel suo primo romanzo, Meyer si interrogava su «cosa succede quando il sogno di una nazione arruginisce accanto agli scheletri delle acciaierie dismesse», mentre nel secondo descrive con lucida determinazione, assortita di sangue, violenza e sopraffazione, la materia con cui quel «sogno» è stato edificato.

Come in un romanzo criminale in stile western che ha come sfondo la terra del mito dello Stato della stella solitaria, Il figlio narra infatti l’epopea, lungo un arco temporale che va dalla seconda metà dell’Ottocento fino ai nostri giorni, di una grande famiglia del Texas, i McCullough che hanno costruito le proprie fortune dapprima con l’allevamento del bestiame e quindi con l’estrazione del petrolio. Incrociando le vicende del capostipite, Eli, rapito da bambino e educato dai Comanche, di suo figlio Peter che si misurerà controvoglia con il primo sviluppo dell’industria petrolifera e cercherà di ribellarsi ai crimini compiuti in nome dell’impero familiare e di sua nipote Jeanne che assisterà invece all’entrata in crisi del monopolio texano sull’oro nero a favore dei paesi del Medioriente, Philipp Meyer ricostruisce, con grande cura per ogni dettaglio – si è sottoposto per alcuni mesi ad un training intensivo con un ex-contractor della Blackwater per imparare a costruire archi e a uccidere bisonti -, una parte decisiva della storia americana, sintetizzando per molti versi lo sviluppo stesso della modernità a stelle e strisce e la costruzione del suo mito. Il tutto, rifuggendo da ogni retorica. Come ha spiegato Meyer, ospite la scorsa settimana della rassegna «Libri come» all’Auditorium di Roma, al sito The Millions: «Ci siamo fatti strada nel continente macellando e uccidendo e ce lo siamo presi un pezzo dopo l’altro con la forza. Ma d’altra parte le tribù native, come tutti gli umani sulla faccia della terra, hanno macellato, conquistato e attaccato i loro vicini più deboli e ne hanno preso la terra. In Texas gli Apache arrivano e distruggono quasi tutte le altre tribù. Cent’anni dopo i Comanche arrivano e fanno loro la stessa cosa. Poi, tocca agli americani».

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I McCullough non si fanno scrupoli a costruire la loro ricchezza sul furto e l’omicidio, ma anche gli indiani non scherzano quanto a crudeltà. Perché sembra proprio che ne «Il figlio» nessuno sia innocente?

Ho scelto di affrontare due elementi centrali della cosmogonia americana. Negli Stati Uniti, cresciamo con il mito di John Wayne, quello dell’uomo bianco che arriva a portare la civiltà in questo continente apparentemente vuoto. Degli indiani si parla poco per evitare di dover affrontare i difficili risvolti morali del fatto che si è tolta loro la terra, prima di massacrarli. Accanto a questo mito «tranquillizzante» che accompagna la nostra infanzia, c’è poi il contro-mito che incontriamo quando siamo più grandi, quello che si insegna nella maggior parte delle università del paese, ad eccezione di quelle ultraconservatrici, dove ci spiegano che i nostri antenati erano in realtà delle persone orribili, avide e violente e che sono arrivati in questa terra dove i nativi, superiori dal punto di vista spirituale e filosofico, vivevano come «santi», senza conoscere l’odio o il concetto di proprietà. Gli indiani erano divisi in tribù che si facevano la guerra di continuo. Come del resto è accaduto sempre nella storia umana, talvolta invocando la necessità di proteggersi o il fatto di incarnare il «popolo eletto» rispetto agli altri. E il mito americano, in questo, non fa differenza.

In questa drammatica saga, solo Peter ha rimorsi per il modo in cui la sua famiglia ha accumulato fortune e potere. Negli Stati Uniti la sua figura non è stata amata troppo dai lettori, perché?

Peter è il baricentro morale del romanzo; è il personaggio che mette in discussione un po’ tutto. Proprio per questo, mi aspettavo che al pubblico americano non piacesse, ma l’antipatia che ha suscitato è andata oltre le aspettative. I lettori statunitensi, compresi quelli di sinistra, si sono infatti identificati con Eli e Jeanne, personalità forti e in linea con la storia degli Stati Uniti. Mentre scrivevo, ho riflettuto spesso sul profilo di Peter, sulla sua forte tempra morale che ne fa in qualche modo un outsider rispetto alla storia della sua famiglia e alla Storia americana.

Lei descrive l’ascesa e la caduta dell’impero americano, si può leggere «Il figlio» come l’atto fondativo di quel mondo di cui con «Ruggine americana» ha raccontato l’epilogo con la de-industrializzazione e la crisi?

Senza dubbio. Ho scritto Ruggine americana scavando in un certo senso dentro di me. È una storia che parla dei miei amici, dei giovani con cui sono cresciuto, di tutti quelli che hanno avuto un padre o un nonno operaio. Anche nella zona di Baltimora c’erano fabbriche, soprattutto tessili, grandi acciaierie e un enorme indotto di piccole officine che ruotava intorno a tutto ciò. Poi, tutti gli elementi costitutivi di quest’economia industriale, hanno cominciato a sgretolarsi, un pezzo alla volta. Così, la nostra è diventata la prima generazione per la quale non c’erano più promesse, alcuna speranza, proprio perché il mondo delle fabbriche stava sparendo. Più tardi, mi sono chiesto da dove era nato questo sogno americano che avevo visto crollare davanti a me. Ed è da questo spunto che è nato il progetto de Il figlio. Infatti, l’idea tutta americana che noi potessimo sempre reinventarci, cavarcela in ogni caso, viene proprio dalla cultura della frontiera che ho raccontato nel mio secondo libro. Il sogno americano si è definito mentre si occupavano manu militari quelle terre che si credeva non avessero Storia, né abitanti: una sorta di tabula rasa su cui avremmo edificato qualunque cosa volessimo.

Se l’acciaio che diventa ruggine è quello della Pennsylvania, perché in quest’ultimo caso la scelta è caduta proprio sul Texas, piuttosto che, ad esempio, sulla California che tanta parte ha avuto nel mito del West?

Se si pensa ad Hollywood dal punto di vista della cultura popolare, è chiaro che la California possa apparire più significativa. Ma se si guarda all’economia e alla politica americane, emerge chiaramente come il passato e il presente degli Stati Uniti passino soprattutto per lo Stato della stella solitaria. È il Texas che ha portato gli Stati Uniti nell’epoca in cui viviamo. È accaduto quando è stato scoperto il petrolio nel 1901, e ci si è resi conto che poteva essere usato anche come carburante: è lì che è iniziata la storia che viviamo ancora oggi. Si può dire che in Texas si è definita la strategia della politica americana a livello internazionale: dal colpo di Stato in Iran nel 1953, passando per il Medioriente, fino agli accordi con l’Arabia saudita e la guerra in Iraq degli ultimi anni. Anche la Seconda guerra mondiale è stata vinta grazie al petrolio texano con cui gli Stati Uniti hanno rifornito i loro alleati per battere i nazisti. Ma non è tutto. In Texas le cosiddette «guerre indiane» sono durate più che in qualunque altro Stato dell’Unione: si è continuato a massacrare gli indiani per circa mezzo secolo, quasi fino al debutto del Novecento. E poi, nell’immaginario collettivo, il Texas incarna un volto dell’America deciso, di fronte al quale non c’è spazio per il dubbio. Se pensi a George W. Bush, a lungo governatore dello Stato, la scelta è netta: o lo ami o lo odi.

Il suo primo romanzo è stato paragonato allo John Steinbeck di Furore. «Il figlio» è stato invece paragonato al Cormac McCarthy di «Meridiano di sangue». Si riconosce in questi paralleli?

Sono molto lusinghieri e devo dire che la stampa americana ha tirato in ballo anche Faulkner, Hemingway, Salinger o lo scrittore di noir Dennis Lehane. Sono tutti scrittori che amo molto, insieme a James Joyce, Virginia Woolf e allo scozzese James Kelman, anche se non saprei dire esattamente in che modo ho fatto tesoro della loro lezione. Per esempio, Steinbeck è sempre stato molto importante per me, ma credo più sul piano dei contenuti che non su quello dello stile. Penso di condividere con lui un certo interesse per la natura profonda degli Stati Uniti: chi siamo, cosa siamo stati e come siamo cambiati? Questo, anche se non declamerei esplicitamente le mie idee politiche ai lettori come accade in alcune pagine, a mio avviso le meno brillanti, di Furore. In ogni caso, scrivendo, è chiaro che peschiamo molto anche nel nostro repertorio di lettori. Così, ad esempio, per descrivere la prigionia presso gli indiani e il senso opprimente delle frontiere che dividevano una tribù dall’altra, credo di essermi ispirato ad aclune pagine di Primo Levi che mi avevano particolarmente colpito quando ho letto i suoi romanzi.

 

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