La rivoluzione venuta da Oriente
Tempi presenti «Il marxismo occidentale», un saggio di Domenico Losurdo per Laterza. L’esperienza dell’Urss e le vincenti lotte anticoloniali hanno segnato la storia del Novecento. Per questo il secolo antimperialista ha prevalso sulla visione «accademica» dell’opera marxiana. Una documentata lettura della storia che privilegia la polemica politica sul «che fare?»
Tempi presenti «Il marxismo occidentale», un saggio di Domenico Losurdo per Laterza. L’esperienza dell’Urss e le vincenti lotte anticoloniali hanno segnato la storia del Novecento. Per questo il secolo antimperialista ha prevalso sulla visione «accademica» dell’opera marxiana. Una documentata lettura della storia che privilegia la polemica politica sul «che fare?»
Il limite principale del marxismo occidentale, secondo Domenico Losurdo, è quello di non aver capito che il vento della rivoluzione soffiava a Oriente, dalla Russia verso la Cina e il Terzo Mondo, molto più di quanto non soffiasse verso l’Europa. Questa è una delle tesi che lo studioso sostiene nel suo ultimo libro (Il marxismo occidentale. Come nacque, come morì e come può rinascere, Laterza, euro 20, pp. 212) che certamente susciterà qualche discussione. Losurdo ha ragione? La sua tesi coglie nel segno? Proviamo a sviluppare un ragionamento attorno a questo interrogativo.
Tanto per cominciare, bisogna capire cosa si intende per «marxismo occidentale», e quanto sia legittima questa categoria. Come ricorda il sempre documentatissimo Losurdo, sembra che il primo a usare l’espressione «marxismo occidentale» sia stato il filosofo francese Maurice Merleau-Ponty, che nel suo saggio del 1955 Le avventure della dialettica contrapponeva proprio il marxismo «occidentale» di Lukács a quello orientale di Lenin, ascrivendo l’uno al campo della dialettica, l’altro a quello del materialismo naturalistico. Ma a rendere popolare il tema è stato soprattutto Perry Anderson, il brillante direttore della «New Left Review», autore nel 1976 di un volumetto, Considerations on Western Marxism, prontamente tradotto anche in italiano per i tipi di Laterza. Cos’era, per Anderson, il marxismo occidentale?
NON ERA nient’altro che un modo molto peculiare di usare e interpretare Marx, incentrato sulle questioni filosofiche, e inaugurato da due grandi libri usciti entrambi nel 1923: Storia e coscienza di classe di György Lukács e Marxismo e filosofia di Karl Korsch. Dopo questi due (ma il primo aveva un peso assai maggiore) il marxismo era diventato un’altra cosa. Era diventato – lo dico con parole mie – una corrente teorica capace di misurarsi su un piede di vera parità con tutto il pensiero del Novecento, e talvolta anche di contaminarsi produttivamente con esso. Con i due testi appena ricordati, insomma, il marxismo diventa un oggetto filosoficamente sofisticato, al quale non si possono più imputare né rozzezze né ingenuità teoriche (che si potevano rimproverare invece, per esempio, al materialismo di Lenin).
Della grande corrente cominciata nel 1923 fanno parte, secondo Anderson, i maestri della Scuola di Francoforte (Max Horkheimer, Theodor Adorno, Walter Benjamin e Herbert Marcuse), gli esponenti eterodossi del marxismo italiano come Galvano Della Volpe e Lucio Colletti, grandi pensatori dell’area francofona come Jean-Paul Sartre, Henri Lefebvre, Lucien Goldmann, Louis Althusser; e anche lo stesso Antonio Gramsci, ma su questo si potrebbe discutere, perché Gramsci non è un filosofo accademico come gli altri fin qui menzionati. Cosa è stato dunque il marxismo occidentale? È stato una importante esperienza filosofica del Novecento, non meno significativa di quelle «borghesi» come l’esistenzialismo, la fenomenologia, l’empirismo logico, il pragmatismo. Ed è su questo terreno, e con questi confronti, che il marxismo occidentale dovrebbe essere discusso, per capire cosa quella esperienza intellettuale abbia effettivamente sedimentato e quanti stimoli se ne possano ancora ricavare. L’indagine darebbe, credo, risultati abbastanza positivi.
LOSURDO invece affronta la questione da una prospettiva diversa, quella dei destini della rivoluzione in Oriente e in Occidente, per mostrare, attraverso una grande ricchezza di citazioni e di testi, che il marxismo occidentale è stato affetto da una singolare miopia: non ha capito, in sostanza, che nella realtà effettiva delle cose il vero e grande risultato storico del movimento comunista è stato quello di saldarsi con le rivoluzioni nazionali dei popoli oppressi dall’imperialismo occidentale (Cina, Indocina, Cuba) e di essere un propellente decisivo per la più importante e vittoriosa trasformazione storica del secolo scorso, la rivoluzione anticoloniale. Ma è proprio sicuro che il marxismo occidentale sia stato così cieco su questo punto? Certo, esso non ha mai rinunciato a pensare che il mondo che si doveva cambiare era quello del capitalismo più avanzato (ma anche Marx la pensava così). Ma che si sia disinteressato al destino delle lotte anticoloniali e antimperialiste, è una affermazione che non mi sembra per niente ovvia. È certamente giusta se parliamo di Horkheimer (soprattutto l’ultimo, che però non era più marxista) o di alcuni testi di Ernst Bloch; ed è vera pure per Adorno, il quale, remando controcorrente, invitava a non esaltarsi per la lotta del popolo vietnamita (siamo sicuri che avesse torto?). Ed è esatta anche per quegli italiani che, come Colletti o gli operaisti, si ostinavano a non concedere nulla al terzomondismo che dilagava negli anni Sessanta.
Ma da molti altri punti di vista la tesi di Losurdo si può mettere in discussione. In primo luogo, tirare in ballo autori come Slavoj Zizek o Alain Badiou mi sembra un po’ fuorviante, perché non mi pare che appartengano, a rigore, alla storia del «marxismo occidentale» come esperienza culturale precisa e definita. Tra coloro che invece ne fanno parte veramente, l’attenzione e l’interesse per la rivoluzione anticoloniale non è affatto un fenomeno isolato.
LUKÁCS se ne occupa nel suo libro su Lenin del 1924. Ed è Losurdo stesso a ricordarlo. Sartre firma la prefazione ai Dannati della terra di Franz Fanon, e fa quindi dell’anticolonialismo un tema centrale del suo pensiero – anche se per Losurdo si tratta di un anticolonialismo «populista e idealista». Althusser studia con attenzione il più «orientale» dei marxismi, quello di Mao (lo valorizza anche troppo?). Marcuse, infine, conferisce una vera centralità alle lotte antimperialiste, come del resto fa il movimento del Sessantotto (nato contro la guerra del Vietnam) che di marxismo occidentale si è ampiamente nutrito. Ma se le cose stanno così, come Losurdo stesso riconosce, dov’è allora il problema con il marxismo occidentale? Non si dovrebbe dire semplicemente che in esso convivono, per quanto riguarda la rivoluzione anticoloniale, posizioni diverse? Perché invece una critica generalizzata?
IL PUNTO EMERGE bene nelle pagine che Losurdo dedica a Marcuse: dopo avere riportato passaggi inequivocabili dei suoi testi, Losurdo nota, però, che Marcuse sostiene anche che vincere la battaglia antimperialista «non ha ancora nulla a che fare con la costruzione di una società socialista». Il vero nodo insomma è il dissenso su come si debba intendere l’emancipazione socialista o comunista: per gli «occidentali» le rivoluzioni d’Oriente sono sostanzialmente altra cosa da quella emancipazione che Marx aveva in mente e nella quale essi ancora vogliono credere. Per Losurdo sono l’unica rivoluzione reale, storicamente attestata e vincente (e pazienza se questo sposta di molto il quadro marxiano). La questione dunque trascende decisamente la storia del marxismo e diventa un nodo teorico-politico di portata molto più generale.
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