Alias

La rivoluzione sui pattini

La rivoluzione sui pattiniUna scena dal documentario «United Skates»

Fenomeni/Per molti afroamericani le piste da pattinaggio sono diventate negli Usa una forma di lotta e resistenza Ogni città sfoggia acrobazie specifiche. Tra omaggi a James Brown e treni al contrario va in scena «un forte senso di comunità». Di grande interesse «United Skates», un recente documentario che racconta il «mondo delle rotelle» e dei suoi riti. Con sale spesso segregate e sul punto di chiudere

Pubblicato più di 5 anni faEdizione del 8 giugno 2019

C’è stato un periodo in cui i pattini a rotelle avevano conquistato l’intero globo terrestre, era la fine degli anni ’70 e l’inizio degli ’80, l’apogeo della disco music dove le sale si popolavano non solo di ballerini alla Tony Manero (il personaggio interpretato da John Travolta ne La febbre del sabato sera) ma anche di spettacolari danzatori a quattro ruote. In particolare negli Usa le sale da ballo si riconvertivano in roller disco, le discoteche sui pattini, con celebrità come Andy Warhol, Grace Jones, Cher, Diana Ross e tante altre sempre pronte a farsi ritratte sulle rotelle. Come tutte le mode, anche questa ha lasciato spazio ad altre manie, riaffiorando però negli ultimi anni negli Usa – in particolare in ambito afroamericano – con una valenza fortemente politica.
LE FIBBIE 
Quando si parla di pattini si distingue tra quelli a rotelle (roller skate) e i rollerblade; i primi – e gli unici che ci interessano in questa sede – sono i pattini tradizionali con due ruote davanti e due dietro, calzati utilizzando fibbie e successivamente apposite scarpine. Dalla fine degli anni Ottanta si è invece assistito al boom dei rollerblade (dal nome della prima azienda produttrice), ovverosia i pattini in linea, con le 4 ruote disposte su un’unica fila centrale, decisamente più instabili e che richiedevano più capacità di equilibrio. È proprio il tradizionale pattino a rotelle, a fine anni ’70, a diventare il protagonista di un gruppetto di film incentrati sul fenomeno, superficiali, ma abbastanza divertenti, documenti inconsapevoli di un’epoca. Il primo ad affrontare l’argomento è anche il migliore, Roller Boogie del 1979, diretto dal regista di Commando e Classe 1984, Mark L. Lester: protagonista Linda Blair (la star de L’esorcista). Tra amori, differenze sociali e disco music di fine Settanta, vanno in scena acrobazie spettacolari.
Linda Blair non sapeva pattinare, ma si allenò moltissimo, pur essendo quasi sempre controfigurata dalla sua maestra Barbara Guedel, tanto da riportare una borsite alla caviglia. Certo è che i balli, come in un musical, qui fanno la parte da leone: ben 50 pattinatori, coreografati dal David Winters di È nata una stella, utilizzati poi pure per un folle e ambizioso flop cinematografico sempre sui roller, Xanadu di Robert Greenwald. Il film ebbe molto successo e si pensò anche a un seguito, ambientato però in Messico, Acapulco Roller Boogie. Non venne girato perché ormai la moda dei pattini stava scemando, ma questo non impedì, nello stesso anno, di mettere in cantiere un’imitazione orribile, Skatetown, U.S.A. di William A. Levey con Scott Baio e Patrick Swayze, forte della frase di lancio «The Rock and Roller Disco Movie of the Year!».
ANCHE DRACULA
Altrettanto deludente fu Il Rollerboy (1980) di Ovidio Assonitis, con cammeo di Christopher Lee, il dracula della Hammer. È indubbio che tutti questi film presentassero una visione bianca e middle class della cultura roller, relegando a ruoli macchiettistici gli afroamericani. Come dire che i roller erano solo per i ricchi e bianchi statunitensi, cosa che non corrispondeva affatto al vero, tanto che negli anni ’80, al culmine delle guerre sanguinose tra le gang nere dei Crips e dei Bloods a Los Angeles, posti come Skate Town (nel territorio dei Bloods) e World of Wheels (Crips) erano considerati esenti dal conflitto, zone franche dove si poteva pattinare/ballare senza essere uccisi. E così fino al 2019, anno che vede l’uscita di United Skates, documentario incentrato sul mondo del pattinaggio a rotelle, prodotto dalla Hbo, sguardo importante e perlopiù inedito sulla valenza non solo sociale ma anche politica e etnica dei pattini a rotelle.
FORTI LEGAMI
«Per me, pattinare è la vita», dice, durante il film, una ragazza nera, mentre sfoggia i suoi pattini personalizzati. Per lei e per molti altri afroamericani, il pattinaggio a rotelle non è solo una passione, è un profondo connettore culturale. Come conferma Buddy “Love” Alexander, l’ex proprietario della pista di Chicago Rich City Skate: «La pista di pattinaggio è dove possiamo essere noi stessi». E ancora: «Il pattinaggio a rotelle mi ha portato l’amore della mia vita, un senso di comunità, di cultura», confessa Reggie Brown, una pattinatrice della Carolina del Nord. Questi intensi legami generazionali diventano in United Skates (da noi non ancora sbarcato) un modo per mostrare al mondo come il pattinaggio possa essere considerato una vera forma d’arte. Impreziosito dai racconti dei pattinatori sparsi in tutti gli Usa, dalla Carolina del nord a Chicago e Los Angeles, il documentario riesce a essere profondo, mai banale, capace soprattutto di affrontare tematiche importanti, come la ghettizzazione etnica, grazie a un argomento solo all’apparenza frivolo.
«Dietro i roller c’è una forte comunità di pattinatori afroamericani», dichiara Pete, un designer di skateboard personalizzato di Los Angeles. Gli fa eco il giornalista Maulah Allah: «Per molti neri, essere su quattro ruote è una vera festa, un riaffermare la propria identità». Ecco allora le piste in parquet trasformarsi in veri templi in cui la creatività e l’attività fisica vanno di pari passo con mosse acrobatiche e coreografie audaci. All’argomento si è interessato di recente anche il New York Times con un’analisi approfondita del fenomeno e una sfilza di immagini emblematiche.
NON NECESSARIO
Leggendo si viene così a sapere che negli Usa il pattinaggio a rotelle è stato penalizzato negli ultimi anni da una preoccupante chiusura delle piste, falcidiate dall’aumento dei prezzi degli immobili e da una riorganizzazione urbana che non le considera necessarie dal punto di vista economico, quindi meglio rimpiazzarle con negozi e supermercati. Tra i locali più noti chiusi nell’ultimo decennio gli appassionati rimpiangono lo Skate Depot di Los Angeles, l’Orchard Skating Rink di Baltimora, il Rich City Skate di Chicago e l’Empire Roller Rink di Brooklyn. La situazione, poi, è aggravata dalla polizia che cerca di impedire le attività dei pattinatori afroamericani in tutti i modi possibili.
«Nelle notti dove si esibiscono i bianchi, nessuno bussa alla loro porta, non si vede polizia, niente. Ma nelle notti nere, ci sono poliziotti alla porta, la sicurezza è ai massimi livelli, e tutto ciò che facciamo viene controllato», si racconta nel documentario. Alcune città ora non hanno più piste, con gli appassionati costretti a viaggiare lontano per partecipare a spettacoli che invitano i pattinatori di tutto il paese a partecipare. Una pista in grande auge, diventata una vera mecca per gli appassionati di roller, è la Branch Brook a Newark, in New Jersey. È proprio qui che una parte del documentario si concentra, in questo locale in cui, una domenica pomeriggio, e per quattro ore, l’umanità più varia si scatena in acrobazie, balli e piroette.
Ecco allora veri demoni della ruota come Shaquan Moore, una guardia di sicurezza di 20 anni di Newark , poi Sharon Lee, 60 anni, di Elizabeth, NJ, uno skater un tempo bravissimo, ora colpito da un gravissimo infortunio alla schiena, e Antwan Vines, 25 anni, operaio addetto alle consegne di Newark, diventato celebre sulla pista per aver partecipato ad alcuni video musicali.
«Adoro vedere la gente pattinare – confessa Iva Kaufman, una delle poche pattinatrici bianche (e una delle più anziane con i suoi 64 anni), che arriva in questo locale ogni settimana da casa sua nell’Upper West Side di Manhattan -. È l’unico posto in cui so che posso interagire con persone che non si trovano nella mia cerchia sociale normale. Pattinare qui mi permette di eliminare questioni di colore, classe, orientamento sessuale e questioni generazionali».
ORGOGLIOSI
United Skates porta alla luce l’orgoglio e le umiliazioni dei pattinatori neri, un mondo che neppure le due autrici, Tina Brown e Dyana Winkler, conoscevano prima. «Abbiamo scelto un argomento estremamente stimolante in cui c’era una grande comunità – una comunità che non era la nostra», ha dichiarato Winkler al Guardian. «È la storia di un popolo che attraversa un intero paese con vissuti differenti, attraversa diverse città, con musica varia e stili di pattinaggio mai uguali, una storia che conta cinque generazioni e una lotta ancora vivida».
Le due non pattinano e non conoscevano la subcultura del roller. Tutto è cominciato per caso: stavano filmando dei pattinatori a Central Park quando sono state invitate dagli stessi ad assistere a uno spettacolo notturno. Così quella notte alle 3 del mattino, le ragazze saltano su un autobus diretto a Richmond, in Virginia. Arrivate alla pista a mezzanotte, vedono migliaia di pattinatori provenienti da tutto il paese, un accalcarsi di danzatori che si scatenavano in acrobazie e piroette.
Ogni regione mostrava un approccio ai pattini inaspettato e variegato. Lo spettacolo includeva lo stile JB di Chicago, in cui gli skater sincronizzavano i loro movimenti con le canzoni funky di James Brown; La falcata dell’Ohio, con passi ampi e spediti; e il fast backwards di Filadelfia, in cui i partecipanti formano treni che serpeggiano elegantemente all’indietro.
L’INFANZIA
Sono coreografie incredibili che lasciano più volte lo spettatore a bocca aperta, qualcosa che non ti aspetti se hai vissuto la tua infanzia con i pattini della Fisherprice.
Entrate per caso «sulla scena», Tina Brown e Dyana Winkler sono andate in giro per gli Usa a documentare il fenomeno raccogliendo moltissime interviste e filmando molti appassionati.
«In chiesa, lasci i tuoi problemi all’altare – racconta una donna di Los Angeles, Phelicia Wright -. Qui li lasciamo sulla pista. Fu incredibile la prima volta quando vidi che le persone depositavano le borse sul pavimento anziché usare gli armadietti chiusi a chiave, ma poi ho capito: nessuno ruba alla propria famiglia e noi siamo una famiglia».
Ma il senso di comunità di questo «mondo su rotelle» cozza con le violenze e i pregiudizi che ne hanno segnato la storia, soprattutto in ambito negli anni Sessanta, durante le lotte per i diritti civili. A quel periodo risalgono, ad esempio, alcuni meravigliosi scatti di Richard Avedon che mostrano pattinatori neri con in mano cartelli emblematici: «Metti via l’odio e pattiniamo» (put down hate and let’s skate); altre foto ritraggono membri del Ku Klux Klan che fronteggiano i pattinatori neri brandendo svastiche e altri vessilli razzisti. Tanto e tale è stato il ruolo politico dei pattini in ambito nero che oltre ai sit-in di protesta venivano spesso inscenati veri e propri skate-in.
Anche anni dopo, molte piste tenderanno a separare bianchi e neri pubblicizzando serate speciali con nomi in codice come «Soul Night» o «Martin Luther King Jr. Night». Non solo: negli anni ’60 e ’70, se i pattinatori neri si presentavano durante una notte per bianchi «alcune piste di pattinaggio assumevano teppisti per farli inciampare, o i proprietari affermavano con una certa nota di disprezzo, di non avere pattini a noleggio per piedi tanto grandi».
SEGNALI INQUIETANTI
La cosa incredibile è che ancora oggi, molte piste hanno cartelli che recitano «no saggy pants», niente pantaloni a vita bassa (tipici degli hip hopper), o «no hip hop music», che alcuni interpretano come razzismo verso gli afroamericani e la loro musica. Altre piste vietano le ruote personalizzate più piccole, modello preferito da molti pattinatori neri, perché sostengono che danneggerebbero i pavimenti in legno.
Pete Russell, 43 anni, che crea pattini personalizzati nel suo negozio SK8 Fanatics, vicino a Long Beach, in California, ribatte: «Non useremmo mai una ruota che possa creare danni. Quelle che utilizziamo in fibra di vetro scivolano sulla superficie del pavimento, mentre la ruota normale, in uretano, può effettivamente danneggiare la finitura dal pavimento». Tante e tali infime divisioni razziste hanno paradossalmente contribuito a definire una cultura a sé, specifica e caratterizzata.
«Una delle ironie della segregazione razziale è che ha creato la libertà per gli afro-americani di creare una sorta di magia nei loro spazi», dichiarano le registe. Ciò è particolarmente evidente nel modo in cui le stesse scarpe da pattinaggio sono diventate scelte di stile e moda. Non a caso Peter Russell può trasformare qualsiasi tipo di calzature in un pattino. «Abbiamo riadattato e trasformato Nike, Converse e Jordan, oltre a stivali da lavoro e scarpe eleganti», afferma. «Una volta li abbiamo anche fatti a tacchi a spillo, per la cantante R&B Mýa». Non solo per lei, però, perché la clientela di SK8 Fanatics è formata anche da altri nomi dello spettacolo: ad esempio Russell Westbrook, giocatore di basket, Beyoncé o Jay-Z, che hanno recentemente ordinato un paio di pattini derivati dalle classiche sneaker Jordan. Da notare che le piste hanno anche storicamente svolto un ruolo fondamentale nella diffusione iniziale dell’hip hop. Negli anni ’80, quando artisti come Salt-N-Pepa, Naughty By Nature, Nwa e i loro fan venivano snobbati dai locali tradizionali, le piste da pattinaggio invece li accoglievano a braccia aperte. Non a caso Dr. Dre ha iniziato la sua carriera come dj allo Skate Town di Los Angeles. Conoscere quindi il mondo «nero» dei roller così da vicino ha portato le due registe a raccontare non solo una storia di discriminazione, ma anche una celebrazione dell’hip hop su quattro ruote. Dal canto suo la connessione hip hop e pattini è stata raccontata anche in film come Roll Bounce del 2005 con protagonista il rapper Lil ‘Bow Wow, e ATL, una commedia drammatica del 2006 con T.I. Non solo: in Theme Music, il terzo videoclip estratto da Friday on Elm Street di Fabolous e Jadakiss e Swizz Beatz, vanno in scena i pattinatori di Branch Brook.
ARGOMENTO SCOMODO
Nonostante il fermento, l’argomento è però scomodo. Brown e Winkler sostengono che non tutti volevano che venisse divulgato e trovare qualcuno che si interessasse alla loro storia è stato problematico. «Quando spiegavamo la situazione e mostravamo il girato, ci dicevano ‘Wow, ci piace tantissimo, tornate però quando avete più immagini’; insomma i filmati non erano mai abbastanza per ottenere una qualche sovvenzione».
Il documentario ha richiesto circa cinque anni di lavoro con Tina Brown e Dyana Winkler che vivevano effettivamente assieme ai loro protagonisti in una immersione totale nel racconto. Per loro il giudizio dei pattinatori era essenziale ai fini dell’uscita del documentario. «Abbiamo deciso di montare una piccola presentazione e mostrare il trailer a un migliaio di pattinatori. Quando l’hanno visto abbiamo ricevuto una standing ovation! In quell’istante sapevamo che non stavamo facendo questo film da sole, anche se tutti ci avevano abbandonate e nessuno sembrava credere in noi, lo stavamo facendo insieme alla comunità dei pattinatori e loro sapevano che stavamo dalla loro parte».

ABBONAMENTI

Passa dalla parte del torto.

Sostieni l’informazione libera e senza padroni.
Leggi senza limiti il manifesto su sito e app in anteprima dalla mezzanotte. E tutti i servizi della membership sono inclusi.

I consigli di mema

Gli articoli dall'Archivio per approfondire questo argomento