Visioni

La rivoluzione sovietica fatta a colpi di sintetizzatore

La rivoluzione sovietica fatta a colpi di sintetizzatorescena da «Skurstenis »di Lalila Pakalnina

Filmmaker In concorso il doc austriaco «Elektro Moskva»

Pubblicato quasi 11 anni faEdizione del 3 dicembre 2013

Dopo l’apertura di venerdì scorso con la cine-installazione Alberi di Michelangelo Frammartino, in proiezione fino all’8 dicembre al Cinema Manzoni, Filmmaker ha inaugurato sabato il suo Concorso internazionale con lo straordinario film-fiume di Wang Bing Feng Ai sui pazienti di una clinica psichiatrica dello Yunnan e il documentario Elektro Moskva, produzione austriaca ma ambientazione moscovita per una storia sull’esistenza semi-clandestina della musica elettronica durante il regime sovietico. Intessuto di cavi elettrici, passanti ferroviari e circuiti sonici, il film di Elena Tikhonova e Dominik Spitzendorfer, realizzato nell’arco di quasi una decina d’anni, fin dai titoli di testa compie un viaggio a ritroso nella Russia del proibizionismo elettronico dove gli impulsi tecnologici e i sacerdoti del culto digitale erano costretti alla clandestinità e al riciclaggio di rifiuti meccanici pur di professare la loro religione.

Musica elettronica dunque come allegoria del comunismo, Elektro Moskva, attraversando quasi un secolo di musica sperimentale e dittatura, non poteva che scegliere Leon Theremin (1896-1993) come guida spirituale: pioniere della sperimentazione elettrotecnica, il fisico e inventore sovietico percorre tutto il documentario con le sue parole e i suoi brevetti, in un cul-de-sac di progresso tecnologico in un’epoca in cui tutto era ossessivamente sotto stretto controllo.

Paradigma perfetto del secolo breve, Theremin ha oscillato, come i suoi macchinari e le sue mani, fra Russia e Usa: bandito dalla matrigna americana alla fine degli anni ’30 per colpa del fisco, represso, arrestato e umiliato nella madre patria nei decenni successivi fino alla parziale consolazione, in età matura, di vedere due leggende come Brian Wilson e Jimmy Page alle prese con il suo famoso e omonimo strumento. La vitalità sempreverde di questo precursore modernista transita per i complessi binari di una narrazione ironica e a tratti fiabesca, sfociando nel racconto di musicisti, collezionisti, band simil Kraftwerk e nostalgici del Soviet su quei capolavori mancati di industria locale denominati sintetizzatori, o più amichevolmente tastieroni, in un bestiario musicale assolutamente irresistibile.

Strumenti imprevedibili, imperfetti, così simili alla vita quotidiana in Russia dell’epoca, i sintetizzatori Made in Russia non spiccavano certo per affidabilità, armonia o disinvoltura ma per una sorta di analogia visiva digital-militare se si osservano con attenzione i dettagli di certe componenti capaci di richiamare un fucile – «Tutto doveva essere monumentale, come un Kalashnikov, costruito per durare nel tempo» spiega uno degli intervistati – o la struttura di un carro armato, quasi una perfetta reificazione dello spirito del tempo.

I sopravvissuti del suono bandito ancora oggi si frequentano, suonano, vagano per i mercatini delle pulci, tengono in vita quello spirito fiero e mai castrato dalla Cortina di ferro comprando quasi a scatola chiusa le sante reliquie, ansiosi di verificare se tutto ancora funzioni mentre il destino (paradossale) delle nuove generazioni è Made in China, con i suoi pupazzetti parlanti da smembrare e riconvertire in campionamenti. Qualche chilometro più in là, in Lettonia, la sinfonia del quotidiano di Skurstenis di Lalila Pakalnina, altro documentario in Concorso giovedì alle 20.00 allo Spazio Oberdan, non è fatta di suoni robotici electro-pop ma di risate festose e voci argentine capaci di colmare di fantasia la desolazione.

Siamo nei pressi di una vecchia ciminiera, residuo post industriale sovietico di un passato che tre bambine bionde distruggono inconsapevolmente con il gioco e con il semplice potere della fantasia, disintegrando fra le onde il riflesso onnipresente della ciminiera.

Il chiasso fanciullo e un’armonica per amica colmano il deserto di suoni del paesaggio, gatti, lucertole e insetti nei campi sono compagni misteriosi, portatori di enigmi e meraviglia, mentre gli adulti sono quasi sempre ai margini del racconto, figure fantasmatiche nel regime dei balocchi. Il degrado ambientale fatto di lamiere e strade dissestate sembra non influire minimamente sulla potente vitalità dell’infanzia che la Pakalnina filma quasi inginocchiandosi con la sua macchina da presa alle «piccole altezze» delle sue protagoniste, con una grazia simile ad Albert Lamorisse e ai suoi bambini gioiosi e trionfanti, animati d’infantile magia.

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