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La «rivoluzione» di Hobsbawm

La «rivoluzione» di HobsbawmEric. J. Hobsbawm

Un documentario di Paolo Fresu e la ristampa di un saggio storico offrono lo spunto per un dibattito sulla perenne modernità del jazz

Pubblicato circa 10 anni faEdizione del 30 agosto 2014

La “Storia sociale del jazz” di Eric J. Hobsbawm è recentemente ricomparsa in libreria, grazie alla ristampa della Res Gestae, con il sottotitolo Una rivoluzione di suoni. È il 1960 quando il volume appare per la prima volta sulla scena editoriale: il titolo è The Jazz Scene e l’autore si firma Francis Newton. Dietro uno pseudonimo ispirato al trombettista di Billie Holiday – Frankie Newton – si cela uno dei più autorevoli storici del Novecento. Che non si tratti solo del saggio di un appassionato cultore e occasionale critico musicale, Hobsbawm lo esplicita in una successiva edizione – tradotta in Italia da Editori Riuniti nel 1982 con il nuovo titolo Storia sociale del jazz – in cui lo studioso svela la propria identità. Il jazz viene qui riconosciuto come «uno dei più importanti fenomeni culturali del nostro secolo: non soltanto un determinato tipo di musica, ma una straordinaria conquista, e al tempo stesso uno specialissimo aspetto della società in cui viviamo». Esplicito diventa anche l’intento del volume: «Uno studio sul jazz nella società». Non solo perché si tratta dell’idioma musicale di maggior successo, ma «il più irrequieto» che si trasforma con eccezionale rapidità. L’unica forma d’arte popolare che, dopo aver rappresentato una «trasfusione di sangue» per la borghesia occidentale, assume poi un carattere universale: «Il jazz è divenuto il linguaggio base della danza e delle musiche popolari nella civiltà urbana e industriale di quasi tutte le zone ove è riuscito a penetrare». Una musica standardizzata e di massa; e non perché abbia qualcosa a che vedere con l’industria moderna e i suoi ritmi: «La sola macchina che il jazz abbia mai tentato di imitare nell’effetto sonoro è il treno (…) un simbolo universale e di grande importanza (…) ma mai di meccanicizzazione. Al contrario – e lo dimostrano le decine di blues “ferroviari” – il treno è simbolo del movimento che porta verso la libertà individuale».

L’unica arte folkloristica, scrive Hobsbawm, che assorbita dalla cultura ufficiale non se ne sia lasciata poi soffocare, ma si è affermata nella moderna civiltà, urbanizzata e industriale; nella miriade di trasformazioni che ha subito, immutati ne sono rimasti i caratteri originari profondamente legati alla tradizione orale e all’improvvisazione. Un idioma che affonda le sue radici in «fonti americane e, all’interno di queste, da impasti afroamericani, anche se non si sa ancora bene come il processo sia avvenuto». Un’arte primitiva e realistica destinata a diventare elemento base della musica occidentale e della sua società.

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