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La rivoluzione delle soul sister

La rivoluzione  delle soul sisterLa dj radiofonica Martha Jean 'The Queen' Steinberg

Miti/Martha Jean Steinberg e Bobbye Hall Hanno abbattuto pregiudizi e si sono imposte in ambiti prevalentemente maschili. Storia di una conduttrice radiofonica e di una incredibile percussionista

Pubblicato quasi 9 anni faEdizione del 12 dicembre 2015

«È un mondo di uomini» recita un classico di James Brown. Per moltissimo tempo le donne hanno fatto fatica ad affermarsi nell’universo musicale pop in ruoli a cui, sulla carta, non appartenevano o non dovevano appartenere. La femminilità veniva sempre interpretata in termini seduttivi, ma riduttivi e quindi era associata ad ambiti ben definiti come l’interprete, la corista o la «vedette» e veniva tenuta ben lontana sia da strumenti musicali troppo «maschili» o da ruoli nel business che non erano ritenuti all’altezza di una donna. Alcune figure pionieristiche però hanno saputo scardinare i pregiudizi e si sono affermate in campi che si ritenevano a loro preclusi. Purtroppo anche la memorialistica e le cronache soffrono lo stesso pregiudizio maschilista e queste donne coraggiose non hanno avuto il riconoscimento che si meriterebbero.

Tutte le conduttrici radiofoniche del mondo dovrebbero avere sulla loro scrivania una foto di Martha Jean Steinberg, ma probabilmente non conoscono neppure il suo nome. Gli annali non mancano mai di citare Alan Freed come il padre del rock’n’roll. Il dj di Cleveland negli anni Cinquanta diffuse dalle frequenze della sua radio i primi successi del nuovo genere. Ma mentre Freed conquistava i teenager bianchi americani con una cultura nata dai neri, gli afroamericani erano incantati dalla voce di Martha Jean Steinberg, la prima vera dj donna. Originaria di Memphis, infermiera di professione e madre di tre bambini, quasi per caso nei primi anni Cinquanta vinse un contest di una radio locale del Tennessee, la WDIA, diventando così la conduttrice di uno show serale. Erano gli anni della segregazione e anche il mondo delle radio era diviso in bianco e nero. La Wdia trasmetteva per un pubblico afroamerciano e fu la prima emittente a mandare in onda una conduttrice nera, Willa Moore. Il suo compito era però solo quello di dare consigli alle madri di famiglia. Martha invece superò l’immagine della donna casa-famiglia-chiesa e divenne una dei primi veri dj moderni. La sua voce raggiungeva una parte significativa della popolazione afroamericana del sud degli States, nelle stesse aree che avevano dato origine al blues, al rhythm and blues e ai primi sussulti del rock. In un’epoca in cui si chiedeva ai conduttori di essere selezionatori e annunciatori dalla voce vellutata e monotona, Martha impose la sua personalità, promosse la scena r’n’b, dimostrando che al microfono si poteva dare entusiasmo, stimoli e trasmettere musica senza pregiudizi. La sua fu una rivoluzione, tanto che nel 1955 il famoso produttore Sam Phillips decise di fondare, sempre a Memphis, la prima emittente al mondo tutta al femminile, la Wher. Per lanciare l’impresa Phillips utilizzò 35mila dollari che aveva intascato dai primi dischi del suo artista principale, Elvis Presley. Peccato che l’astuto discografico reclutò per la sua radio solo voci di conduttrici bianche. La Steinberg intanto si era guadagnata il soprannome di «The Queen», la regina, e negli anni Sessanta si trasferì a Detroit dove divenne la voce più amata dal pubblico nero, introducendo espressioni gergali e modi di dire. Il suo marchio di fabbrica era la frase «I betcha!» (ci scommetto!), espressione confluita nello slang afroamericano. Negli anni caldi della contestazione divenne anche un punto di riferimento per la comunità nera di Detroit. Nel luglio del 1967 nella capitale dell’auto esplose una violenta rivolta nei ghetti. Vennero mobilitate due divisioni dell’esercito e la guardia nazionale. Martha decise di coprire gli eventi con una lunga diretta di 48 ore e per molti cittadini di Detroit i suoi appelli alla calma e alla ragione riuscirono a contenere la diffusione degli scontri. Ormai «The Queen» era diventata più di una dj, si era trasformata in un’icona, un’attivista, una figura di ispirazione e un membro autorevole della comunità. Nel ’72 divenne ministro evangelico e fondò una sua comunità religiosa, ma rimase una star radiofonica. Nel 1982 fondò una sua radio la W-Qbh (acronimo di «Queen Broadcasts Here», «la regina trasmette qui») da cui è andata in onda sino alla sua morte avvenuta nel 2000.

Se voce e microfono sono state l’arma di Martha Jean Steinberg, un’altra coraggiosa donna afroamericana ha usato le percussioni per sfondare in un mondo proibito alle donne. Bobbye Hall è stata una delle maggiori musiciste della Motown. Un produttore della casa di Detroit, Paul Riser, si accorse di lei a una festa di ragazzini, era poco più di una bambina, ma suonava il bongo come una forsennata. Decise subito di coinvolgerla nelle registrazioni dei dischi soul e r’n’b che l’etichetta stampava a ripetizione. Riser avvicinò la ragazzina e le chiese «Vuoi fare una session?» «Certo! – rispose Bobbye – Che cos’è una session?». Capì in fretta quello che le chiedevano e divenne la turnista più giovane d’America e si ritrovò in studio con i pezzi grossi della black music. Data la sua verdissima età però i dirigenti della label preferirono non mettere il suo nome nelle note di copertina e quindi molte delle sue performance sono cadute nell’anonimato. Non era solo la più giovane, era anche una delle pochissime donne in un mondo di uomini. «Non dicevo nulla. Non sapevo cosa dire – ha raccontato -. Erano come mio padre, io li ascoltavo e loro mi spiegavano come volevano la musica schioccando le dita o battendo le mani o i piedi. Io mi sentivo a casa». Marvin Gaye, Bill Withers, Aretha Franklin: Bobbye si ritrovò in studio con i grandi della musica nera. L’unico suo quasi-coetaneo era un ragazzino prodigio, Stevie Wonder (al tempo detto «Little Stevie») di cui divenne grande amica. Dallo studio passò poi al palco debuttando con la band di Gaye. Incontrò anche Janis Joplin che la volle per le sessioni di Pearl.

«Era una donna vitale, piena di energia, coperta di gioielli come una zingara» ha ricordato. Le due artiste si accordarono per suonare insieme, ma quella notte Janis morì e la Hall suonò le parti solo successivamente per l’edizione postuma dell’album. Arrivò poi Carole King che la ribattezzò «Mz. Bobbye Hall» un soprannome che si porterà dietro per tutta la carriera. Diventata poi una delle session women più affermate, suonò con Bob Seger, Stevie Nicks, Rod Stewart, Dolly Parton, Lynyrd Skynyrd e Kris Kristofferson. La sua relazione artistica con Bob Dylan fu avventurosa.

Aveva collaborato con l’artista nel disco Street-Legal e fu scritturata per il tour di quell’anno, 1978. Dylan all’epoca era pieno di debiti e accettò di fare una lunga serie di concerti in tutto il mondo in cui proponeva le sue canzoni con arrangiamenti soul-pop. La band di cui la Hall faceva parte era composta soprattutto da musicisti neri a cui vennero consegnati abiti di scena disegnati da un costumista di Hollywood e che non piacquero.

«Sembriamo dei magnaccia e delle puttane», disse qualcuno. Il tour fu stroncato dalla critica che pensò che Dylan ormai si stesse svendendo, ma risolse i problemi finanziari del menestrello che ogni tanto rimproverava sonoramente la band accusandola di impegnarsi poco. «Quando parlava con noi – ha ricordato Bobbye – non era certo un poeta». Il tour è documentato dal disco inciso a Tokyo Bob Dylan at Budokan che un critico stroncò come la cosa peggiore che gli americani avevano fatto al Giappone dai tempi di Hiroshima e Nagasaki. Archiviata l’esperienza con Dylan, la Hall riprese il suo lavoro in studio con i Pink Floyd partecipando alle session di The Wall. Oggi vive a Los Angeles e dice della sua carriera: «Non è una vita facile. Per nulla. Ma è una bellissima vita». In fondo aveva proprio ragione il Padrino del soul nei versi successivi della famosa canzone: «È un mondo di uomini. Ma non vale nulla senza una ragazza o una donna».

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