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La rivoluzione del bio compie 30 anni

Il fatto della settimana Dal primo autoregolamento per la produzione bio agli scaffali dei supermercati. Un settore in continua crescita. Intervista a Vincenzo Vizioli, presidente dell’Aiab: un cambiamento imposto dai consumatori

Pubblicato quasi 6 anni faEdizione del 27 dicembre 2018

Compie 30 anni l’agricoltura biologica in Italia. Almeno quella certificata, con regole e controlli. Era il 1988 quando la «Commissione nazionale cos’è bio», che poi si trasformò in Aiab (Associazione italiana agricoltura biologica), scriveva il primo auto-regolamento per fissare principi e garanzie che resero possibile l’avvio della produzione biologica italiana. Quello stesso regolamento servì poi da guida alla Comunità Europea per varare il regolamento 2092/91.

Con Vincenzo Vizioli, presidente federale di Aiab, ripercorriamo questi 30 anni.

«Non posso nascondere una grande soddisfazione, se penso che 30 anni fa il biologico era ancora considerato qualcosa di non praticabile, sostenuto da noi obiettori di coscienza dell’agricoltura industriale, in assenza di ricerca e senza il sostegno né del mondo accademico né di quello agricolo. Oggi è addirittura l’Unione europea a dirci che dobbiamo orientarci al biologico come metodo per mitigare i cambiamenti climatici perché l’agricoltura industriale è il terzo settore maggiormente responsabile delle emissioni di gas ad effetto serra. In più l’Italia, con oltre 70 mila aziende biologiche, è tra i paesi che possono vantare le norme più restrittive sui limiti residuali delle sostanze non consentite, cioè il limite di rilevabilità delle macchine, praticamente zero: il biologico italiano è l’unico sistema di produzione agricola che ha una sua normativa e che offre le più alte garanzie ai consumatori».

Siete stati tenaci, oggi l’agricoltura biologica in Italia sfiora il 20% della superficie agricola, un bel traguardo, considerando che la media europea è circa il 7%.

Se c’è stata questa crescita, malgrado la crisi economica, non è stato certo per scelte di indirizzo politico. La spallata l’hanno data i consumatori, che sono sempre più avanti della politica. Le persone hanno paura dei pesticidi, le rassicurazioni dell’industria non sono più convincenti. Abbiamo trovato il Fipronil nelle uova, il grano che viene dall’estero è trattato sulla spiga con il glifosato che poi ritroviamo nell’acqua, nella birra e addirittura nei pannolini. I grandi marchi e la grande distribuzione si sono dovuti arrendere all’evidenza e in tutta fretta hanno creato le loro linee bio per non perdere un treno.

Cosa può succedere al biologico sugli scaffali della grande distribuzione?

In pochi anni il biologico da prodotto di prossimità è diventato in alcune circostanze un prodotto industriale. Certo, se la produzione biologica dovesse rispondere agli stessi parametri dell’agro-industria potrebbe essere snaturata, se non distrutta. Le speculazioni sui prezzi, le aste al massimo ribasso rendono i prezzi non più remunerativi e potrebbero spingere le aziende ancora verso la specializzazione, la monocultura. Non è questa la strada del biologico.

Il biologico italiano deve temere la concorrenza dei prodotti di importazione?

Il problema è che stiamo rispondendo alla crescita delle domanda interna con le importazioni. Questo è un grande errore. Significa che ai nostri agricoltori si presenta una grande opportunità e noi non la cogliamo. La crescita dell’import è un punto debole perché i prodotti biologici extra-Ue in questo momento non possono essere garantiti e il rischio frodi è molto alto. Per fortuna il nuovo regolamento Ue, che entrerà in vigore però solo nel 2021, bloccherà le importazioni da quei paesi che non sono allineati ai nostri standard e ai nostri sistemi di controllo. Quello che oggi i consumatori possono facilmente fare è verificare la provenienza dei prodotti sull’etichetta che indica se un prodotto è europeo oppure no.

L’Italia non ha ancora la legge quadro sul biologico. Perché?

A qualche associazione di categoria non è piaciuta, per esempio alla Coldiretti. Di recente è stato presentato un nuovo testo, sfrondato della parte dei controlli, regolamentati dal ministro Martina, che assegna agli agricoltori biologici grandi compiti e riconoscimenti, se vogliamo, ma senza fondi adeguati. Anche il Piano Strategico Nazionale sbandierato durante l’Expo è rimasto lettera morta, senza alcun finanziamento. La tassa del 2% sui pesticidi, circa 10 milioni di euro l’anno, che avrebbe dovuto essere destinata alla ricerca sul biologico, viene regolarmente dirottata altrove e al bio restano solo briciole. Anche i bandi sono fermi. Ma il fabbisogno di ricerca e di formazione per l’agricoltura biologica è enorme: negli istituti agrari nemmeno si affronta il tema del biologico e anche a livello accademico si fa poco. Chi vuole formarsi deve farlo da sé.

L’anno scorso il settore biologico chiese al governo un Piano sementiero nazionale. Si è mosso qualcosa?

No. La verità è che la ricerca agraria è orientata alla produzione della grande agro-industria, così noi che facciamo agricoltura biologica siamo costretti a chiedere anno dopo anno deroghe al regolamento che ci impone di utilizzare sementi e materiale di propagazione biologico che però non esiste sul mercato. E siamo costretti il più delle volte a lavorare con sementi di varietà selezionate per altri metodi di coltura. Abbiamo chiesto di selezionare varietà idonee, ma con il metodo partecipativo, in cui vengano coinvolti anche gli agricoltori e di poter valorizzare popolazioni evolutive, cioè miscugli di sementi adattati e acclimatati al clima e ai nostri terreni, e che questo materiale eterogeneo possa essere scambiato tra gli agricoltori, cosa che al momento non è possibile fare.

L’Italia si è data come obiettivo di arrivare a coltivare il 25% bio entro il 2030. Non è un obiettivo al ribasso?

Assolutamente sì. Ormai siamo quasi al 20%, in 10 anni ci si arriva molto facilmente. Bisogna dire che le regioni, che gestiscono i Psr (Piani di Sviluppo Rurale), hanno ampiamente sottostimato l’andamento di crescita del biologico. C’è stato un errore di programmazione: se non si provvede a una revisione molte aziende rischiano di rimanere escluse dai bandi, non ci sarà spazio per tutte. A soffrire di questi limiti, purtroppo, sono le piccole-piccolissime aziende bio, il cui numero sta già diminuendo. Però la politica dovrebbe sapere che i piccoli agricoltori svolgono un ruolo essenziale nella tutela delle zone marginali di questo paese.

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