Adieu au langage, proiezione del capolavoro di JL Godard, rimangono fuori per due giorni di seguito moltissime persone, ma la scelta della sala (un centinaio di posti) forse obbligata dal 3D non è delle migliori per un film atteso come questo del regista svizzero (nel Fuori concorso).

Un uomo, una donna,una storia d’amore, la storia del cinema. L’umano, il linguaggio, il mondo animale, Roxy, lo splendido cane protagonista, la sovrimpressione del 3D. E poi? Il film di Godard interroga la natura delle immagini, e l’immaginario, per questo è una lente nella quale far scorrere quanto vediamo.

Lui riesce sempre a sorprendere, poetica dichiarata, slittamenti continui, non c’è bisogno di trucchi, il mettersi in gioco rispetto al proprio gesto cinematografico è il punto di partenza. Quanto di questa «lezione» si trova nella ricerca oggi, in chi dichiara una contaminazione, un crossover, uno spostamento della visione altrove non è certo, ma provando (è un gioco) a cercare un «addio al linguaggio» in quanto visto questi giorni sugli schermi locarnesi, rimane sovente l’impressione di una forma cinema fine a se stessa – penso a un film come La sapienza di Eugene Green (in gara), nel quale barocco e visione frontale si scontrano inseguendo l’idea di un «barocco irregimentato» che ne ignora la moltiplicazione (molto umana) del senso.

Anche per questo non si può che amare un regista come Pedro Costa che nel suo nuovo (in concorso) Cavalo Dinheiro ritorna su quella che è l’ossessione – magnifica non so, dolorosa e ostinata senz’altro – della propria poetica: il suo paese, la Rivoluzione del Garofani che rovesciò il regime di Salazar, vista però dalla parte di coloro che ne sono stati il pretesto, ovvero gli africani delle colonie, senza mai diventarne parte.

È qualcosa che attraversa i suoi film dal primo, O Sangue, col fantasma del padre scomparso, militare partito a combattere nelle guerre coloniali negli occhi di un ragazzino che sembra incarnare la generazione del regista. Da allora ci sono stati altri film, e il regista ha toccato corde diverse dell’immagine e diverse modalità per avvicinare, e narrare quel mondo, i capoverdiani divenuti migranti che vivono nelle periferie povere di Lisbona.

Li ha seguiti nel tempo, da No quarto da Vanda, presentato qui in concorso una ventina di anni fa, e la pratica quotidiana del filmare si è intrecciata alla grana dell’immagine, una solitudine o quasi che cerca costantemente la corrispondenza tra le immagini e ciò che mostrano, la relazione di durata e tempo o del proprio cinema. Filmare la miseria, o la marginalità non significa riprodurla, compiacersi, accarezzare il sentimentalismo. Le rovine in cui si avventura Costa si trasformano in un pensiero sull’immagine, sulla luce, sull’inquadratura, su una verità che trova la sua forza nel massimo dell’astrazione.

Ritroviamo Ventura, protagonista del precedente Juventude em Marcha, ma se quel film aveva l’eco di una ballata rivoluzionaria, Cavalo Dinheiro è un film di fantasmi che ritornano nel quarantennale della Rivoluzione portoghese. Un film che vive nell’oscurità di una lunga notte, claustrofobico, in cui il il protagonista, Ventura appunto, le mani scosse da un tremito costante memoria fisica di sofferenze passate, sembra ripercorrere una vita che è la sua e che somiglia a quella di tanti altri come lui, nei cui destini dannati si intreccia la Storia del Portogallo.

Ma quale Storia però? La sua è quella di chi ha perduto tutto, la storia di un migrante, la casa lasciata alle spalle è andata in rovina, l’asino è morto e il suo bel cavallo Dinheiro è stato fatto a pezzi… Le mani da muratore, di ragazzo giovane spezzato dalla rabbia della fatica, non sono riuscite a trattenere l’anello da sposa per la sua amata Zulmira, e la baracca nel suburbio che è un ghetto non ha mai avuto abbastanza mattoni per finirla.

Nei lunghi corridoi deserti di quello strano ospedale, o manicomio o prigione, Ventura ritrova i suoi ricordi, e i suoi incubi. Al capezzale appaiono vecchi amici, uno ferito cadendo al cantiere, un altro arrestato e picchiato da avere bisogno di pasticche per dormire tutta la vita.

Racconti di violenze e di solitudini, nelle fotografie in bianco e nero che aprono il film, i neri appaiono raramente anche nei quartieri poveri, in questo film invece sono i «bianchi» a rimanere quasi fuori dal quadro.

C’è una donna, Vitalina, viene per i funerali del marito, e per avere la sua pensione di vedova. Ma cosa la lega a Ventura? Un colpo di coltello in fronte, e una vita fottuta, la sua e quella dell’uomo. Risse, e le botte dei militari, paura, e i padroni che li sfruttano. Se si cambiano le parole di una canzone di lotta si cambia la Storia?
Ventura ha diciannove anni, 1975, il soldato gli dà la caccia eppure era in suo nome che stava facendo la Rivoluzione.

Se penso alle ultime sequenze del film di Lav Diaz, coetaneo di Pedro Costa all’anagrafe, mi viene in mente che l’universo del regista filippino non parla neppure di rivoluzione. Lì siamo in una specie di apocalisse, qualcosa che è andato al di là o forse non è mai esistito. Costa la Rivoluzione la mette al centro, ma la sua immagine che va oltre il tempo, in un presente eterno, ha una politicità di segno opposto. La rivoluzione non c’è, non c’è mai stata anche se è stata dichiarata ed è divenuta mitologia storica cancellando le contraddizioni per riscriverla su misura.

Nei sotterranei di quel luogo rimane quanto è stato escluso dall’immagine ufficiale, e non è oggetto di celebrazione e forse nemmeno di Storia.

Sono queste immagini allucinate che la rendono possibile, la confusione di piani temporali, e narrativi, e la sfida alla «realtà» del digitale fissata nella potenza di un chiaroscuro barocco, sfida tra potere e umano che è il sussurro di una vecchia canzone, di un sogno che fa paura soltanto pensare.