Visioni

La rivoluzione comincia con una slam poetry

La rivoluzione comincia  con una slam poetry

Cinema «The Revolution Won't Be Televised» di Rama Tiaw al Festival del cinema africano che si è aperto ieri a Milano. Il movimento senegalese Y’en a marre e la sua lotta contro il presidente Wade, tra rap e Sankara

Pubblicato più di 8 anni faEdizione del 5 aprile 2016

Thiat la rivoluzione ha cominciato a farla da ragazzino, a tredici anni, il padre era morto quando era piccolo, la madre lo amava moltissimo ma tutto quell’amore non bastava a opporsi alla miseria, all’ingiustizia sociale, alla corruzione della politica. «Sankara non sapevo chi fosse e nemmeno Lumumba» dice davanti all’obiettivo di Rama Tiaw, giovane cineasta mauritana, studi di cinema a Parigi che nel 2012 comincia a documentare le lotte del movimento senegalese Y’en a marre. Giovani artisti, rapper, poeti, muscisti, attivisti che quando il presidente del Senegal Wade si ripresenta alle elezioni dopo dodici anni di governo e di corruzione lancia un grido di rivolta: «Y’en a marre, Adesso basta».

 

 

 

 

Il film li segue fino alla sconfitta di Wade alle ultime elezioni, e alla vittoria di Macky Salle, nella quale Y’en a marre ha un ruolo molto importante (pure se loro dicono di non essere vicini a alcun partito politico) portandoci dentro questa rivoluzione pacifica, come dicono i suoi protagonisti, ma determinata, che i media istituzionali offuscano – una delle proteste più importanti è proprio davanti alla sede della televisione di stato – in complicità col potere. Eppure le piazze, le strade, i ragazzi questo movimento lo sentono loro, affollano slam poetry e concerti, ripetono i versi di lotta che aggrediscono la realtà. Del resto The Revolution Won’t Be Televised come dice il titolo, citando la canzone magnifica di Gil Scott Hero – The Revolution Will Not Be Televised – ma sarà «Live», non sul piccolo schermo ma «dal vivo». Thiat e Kilifeu i mezzi per arrivare ai senegalesi li cercano altrove organizzando una rete collettiva. «La rivoluzione è un modo di vivere non un semplice discorso» dice Thiat.

 

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La regista (premio Fipresci all’ultima Berlinale, il suo film era al Forum), che rivisita abbastanza la lezione del cinema diretto, alterna le voci di Thiat e Kilifeu e il loro agire quotidiano a quella della scrittrice e cineasta senegalese scomparsa nel 2013, Khadi Sylla (Une fenêtre ouverte), ai suoi racconti di altre rivoluzioni, di quando a scuola lei e i suoi compagni organizzavano scioperi e manifestazioni sfidando gli assalti della polizia e imparavano a fabbricare molotov. C’era una volta la rivoluzione…

 

 

 

«Più la polizia è violenta, più la gente diventa determinata» dice un ragazzo. Eccoli dunque a fronteggiare le cariche attenti però a non offrire alla «legge» dei pretesti. «Non abbiamo l’autorizzazione non facciamo questa manifestazione« dice Thiat al telefono. Il rap è la loro arma privilegiata, è stata la scoperta di una libertà. E poi i padri dell’indipendenza africana, Amilcare Cabral e soprattutto Thomas Sankara tradito e ucciso da Blaise Comparé.

 

 

Y’en a marre arriva in Burkina Faso per sostenere la protesta contro Compaorè, i due ragazzi cercano oggi la lezione di Sankara. Al tempo stesso Rama Tiaw guarda i suoi protagonisti in quello che è il loro lavoro, la musica, li segue nella preparazione del loro nuovo disco che si intreccia alla lotta politica, racconta le giovani generazioni africane e insieme un paesaggio postcoloniale punteggiato da contraddizioni che si ripetono.

 

 

 

 

The Revolution … è uno dei titoli nel cartellone del Festival del cinema africano, Asia, America latina – inaugurato ieri a Milano (fino al 10) con l’anteprima italiana del nuovo film di Kitano Takeshi Ryuzo e i sette compari – che diretto da Alessandra Speciale e Anna Maria Gallone continua il suo lavoro di ricerca negli immaginari meno «scontati» del nostro tempo. Non solo Africa, appunto, come era alle origini pure se il cinema africano continua avere uno spazio centrale nel cartellone, ma i tre continenti in cerca di contrappunto alle visioni eurocentriche e di assoluto occidentale.

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Tre concorsi, i lungometraggi «Finestra sul mondo» (dove va segnalato il molto bello A peine j’ ouvre les yeux, la primavera tunisina raccontata da Leyla Bouzid), i corti africani e la sezione dedicata ai doc italiani. Gli eventi speciali – tra cui Stop di Kim Ki-duk che esplora gli effetti fisici e mentali dell’esplosione nucleare a Fukushima nella vita di una giovane coppia esposta alle radiazioni e subito evacuata a Tokyo. Miki scopre di essere incinta. Cosa fare del bambino? Tenerlo con rischio di malformazioni o abortire? E Monk Comes Down the Mountains di Chen Kaige, una commedia nella Cina degli anni Trenta, che segue le avventure del monaco taoista He Anxia costretto a lasciare il suo monastero sulle montagne e scendere in città. Ma anche Black President di Mpumelelo Mcata, il rapporto con l’occidente e i margini di indipendenza nell’uso dell’immaginario per un artista africano.
Info: www.festivalcinemaafricano.org

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