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La rivoluzione allegra non si ferma a sinistra

La rivoluzione allegra non si ferma a sinistra31 gennaio 2015, la "marcia per il cambiamento" di Podemos a Madrid

Gli eventi di questi giorni, dalla battaglia sul «fronte greco», al Quantitative easing, alla partita a scacchi con Putin con il suo tragico tributo di sangue (e il corollario quasi […]

Pubblicato più di 9 anni faEdizione del 14 marzo 2015

Gli eventi di questi giorni, dalla battaglia sul «fronte greco», al Quantitative easing, alla partita a scacchi con Putin con il suo tragico tributo di sangue (e il corollario quasi patetico delle gesticolazioni di Renzi) ci dimostrano molto chiaramente che l’Ue non è ancora avviata sulla strada della discontinuità che molti, e i Verdi europei fra loro, auspicano da molto tempo. La partita europea è fatta di rapporti di forza, e non valgono gli argomenti razionali e le buone ragioni. Il fatto che da sei anni le politiche lacrime e sangue imposte alla Grecia (e non solo) l’abbiano spinta nel baratro, salvando i soldi degli investitori privati e trasferendone i debiti sui cittadini tedeschi, italiani, francesi, spagnoli e perfino lituani o lettoni, non sono servite ad abbandonare o almeno a rendere meno feroce la spinta alle riforme di bilancio e ai tagli come unica risposta ai deficit interni. La partita intorno alle scelte di Tsipras è resa più difficile dal fatto che i partner europei trattano il nuovo governo con maggiore diffidenza e severità che quello di Samaras – politico direttamente e personalmente responsabile delle frodi e bugie che hanno portato la Grecia alla bancarotta – semplicemente perché cerca di rompere il circolo vizioso dei tagli che portano a più debito e a maggiore sofferenza e dipendenza.

D’altra parte, il balletto di Juncker intorno al suo piano, che contiene, certo, elementi di interesse, o la retorica di Renzi sulla fine dell’austerità non riescono a dissimulare il fatto che quando Schauble abbaia, molti, compresa la Commissione, si mettono a cuccia. Vari paesi, inclusi il nostro e la Francia, si accontentano di un po’ di clemenza e qualche rinvio e sono molto ottimisti sul fatto che il Quantitative easing serva a rendere il credito più facile. È in questo contesto di sostanziale indisponibilità a rompere davvero con le politiche degli ultimi anni che si deve muovere in Italia (e non solo) quel largo e variopinto fronte di «europeisti insubordinati» di spinelliana memoria, diviso secondo me in modo inopportuno ed elettoralmente non vincente dalla scelta di fare alle europee una lista Tsipras limitata allo stretto perimetro della sinistra-sinistra. Il rischio di ritrovarsi nello stesso spazio chiuso basato su identità importanti, ma orientate più alla difesa che all’attacco per la creazione di un nuovo mondo e del consenso necessario a costruirlo, mi sembra molto presente nella proposta del Fronte Pop degli amici Airaudo e Marcon. Bisogna riannodare il filo con chi nella politica e nella società costruisce un’alternativa, anche se lo fa ancora in ordine sparso e con modalità diverse. Sono d’accordo che ci sia uno spazio di azione politica aperto dalla scelta di Renzi del partito della nazione.

Da ambientalista, ho detto e scritto in molte occasioni che legare in una proposta di trasformazione ecologica dell’economia e della società le innumerevoli vertenze sul territorio, ma anche i tanti operatori economici innovativi e creatori di nuovi lavori, rappresenta una sfida che va al di là delle appartenenze associative e di partito. Finora pero, questa tematica è rimasta sullo sfondo per la sinistra, le associazioni si sono a spesso ritirate nell’Aventino della diffidenza in blocco per tutta la politica, e neppure noi siamo ancora riusciti a coagulare le forze disperse dell’ambientalismo italiano.

Quindi ben venga la proposta di riorganizzare queste forze europeiste e insubordinate. Ma, sommessamente, mi permetto di fare alcune considerazioni sulle modalità proposte: innanzitutto, lo spazio che si deve ambire a costruire non è quello dell’«opposizione». Ma come, ci prepariamo a continuare a perdere? La nostra prospettiva deve essere quella dell’alternativa di governo e di scelte che non devono limitarsi a organizzare la resistenza. Quindi non possiamo parlare solo ai sindacati, alle Ong o alla sinistra: dobbiamo smontare pezzo a pezzo e con determinazione le false verità di Confindustria e Lega, puntando a riconquistare chi è attratto dal loro messaggio. E dobbiamo porci in diretta interlocuzione con chi innova, con chi costruisce una nuova Italia, non solo dalle meritorie mense della Caritas, ma anche da un’impresa privata o un’amministrazione locale, pur se non targata «sinistra». Questo è per me un punto importante. Non sono sicura che il nostro obiettivo debba essere copiare Syriza e Podemos, date le grandi differenze tra i nostri paesi. Ma nella loro esperienza c’è un elemento sul quale riflettere: il superamento della sinistra come elemento identitario costituente e dominante.

Come notano Airaudo e Marcon, Podemos – creata da un gruppo di cinque professori vicini a Izquierda Unida – non parla di riaggregare la sinistra che, contrariamente all’Italia, è tradizionalmente maggioritaria in Spagna. Ma parla di chi sta dentro e di chi sta fuori dal sistema, chi sta arriba e chi abajo e sta costruendo in modo spregiudicato e lontano dagli schemi una proposta di governo slegata da ogni alleanza con schieramenti esistenti. Tsipras ha preferito allearsi con un partito di destra e nazionalista per non essere costretto ad avere condizionamenti interni rispetto alla sua strategia di superamento del piano della Troika.

Insomma, per costruire un soggetto politico alternativo e di governo non basta coagulare il dissenso pur importante di settori vitali del paese. Per battere la «rivoluzione» renziana e il partito della nazione non necessita una «controrivoluzione» identitaria e talora da amarcord, ma un’altra rivoluzione, più radicale ma anche più allegra. E in questo senso noi pensiamo che la proposta di nuova economia e società non possa fare a meno di integrare davvero e in modo profondo, anzi «rivoluzionario», l’idea oramai collaudata di un Green New Deal che, a partire dalla realtà dei cambiamenti climatici, della scarsità delle risorse e della dipendenza energetica, punti ad attività economiche «intense» in lavoro di qualità e innovazione, alla riorganizzazione degli spazi urbani, alla mobilità sostenibile, alla democrazia energetica; tematiche queste che danno alle parole «libertà» e «partecipazione» un senso nuovo, lontano da individualismi esasperati, ma anche da imposizioni moralizzatrici. E magari possono aiutare a uscire da quelle ambiguità che hanno portato Landini a parlare di «trivellazioni compatibili con l’ambiente» o a contrapporre da sinistra il tema del lavoro a quello dell’ecologia, come mi è capitato di sentire, dimenticando i 230mila posti di lavoro creati dalle energie rinnovabili, o il fatto che l’Italia verde in Europa è seconda solo alla Germania.

C’è un confronto di culture da inventare, certezze storiche da modificare, compagni e compagne di strada inabituali da coinvolgere, scelte scomode da fare. Ci possiamo certamente provare, ne vale la pena. E auspico che l’evento del 28 marzo sia la prima occasione per farlo.

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