Dopo trent’anni la rivista femminista e umoristica «Aspirina» deve rinunciare al proprio nome per via dell’attacco ricevuto dal colosso farmaceutico Bayer, produttore della pillola omonima. Sembra uno scherzo, in tempi oscuri come questi, eppure una entità pachidermica come Bayer che riesce a spendere 66 miliardi di dollari per acquisire Monsanto è, al contempo, molto interessata all’esistenza di un progetto che racconta la realtà attraverso fumetti, video e racconti satirici. A causa di tale indigeribile disappunto, nel novembre del 2017 i padroni della multinazionale tedesca hanno pensato bene, in barba a regolare registrazione di marchio da parte della Libreria delle donne di Milano che editava la rivista, di protestare per l’uso improprio del nome. Il senso proprietario del resto non è solo istintuale ma anche connaturato a soggetti che ne rivendicano la permanenza univoca. Succede sempre così: per conto di una imprescindibile primazia che si immagina di possedere, si sfodera l’artiglieria pesante che altro non è, in questo caso, il tono muscolare di studi legali blasonati. L’esito della vicenda è abbastanza prevedibile; la rivista femminista evita saggiamente una causa che sarebbe durata decenni e si tiene la «misura umana» che meglio l’ha caratterizzata fino a oggi. Risponde creativamente, diventando un blog: «Erbacce. Forme di vita resistenti ai diserbanti», salvando l’archivio completo di questi trent’anni all’indirizzo www.erbaccelarivista.org.

LA STORIA
La sottile e ininterrotta genialità rimane la stessa, l’irriverenza lungimirante anche, al pari di quella che alla fine degli anni Ottanta, aveva mosso il desiderio di scartare dal linguaggio politico del movimento delle donne. In quell’alveo politico e simbolico la scrittrice Bibi Tomasi pensa al nome «Aspirina» inventando anche il sottotitolo «Rivista per donne di sesso femminile», posizionandosi con maggiore precisione all’interno di un contesto come quello della differenza sessuale italiana che si distanziava dalle politiche delle pari opportunità come da quelle del cosiddetto femminismo di Stato. La redazione iniziale comprendeva donne e femministe di diversa formazione che per anni si sono confrontate fra loro: la stessa Tomasi, Pat Carra, Piera Bosotti, Fiorella Cagnoni, Sylvie Coyaud, Margherita Giacobino, Giuliana Maldini, Isia Osuchovska, Ketty Frost. La cura grafica era invece affidata a Stefania Guidastri.
«Noi non vivevamo la Milano da bere, ma una città aperta a tanti scambi e conflitti – dicono le Aspirine in una intervista per Primo maggio di un anno fa – a una libertà femminile in fermento». A titolo gratuito, hanno lavorato mettendo a disposizione le proprie competenze, senza mai avidità espansionistiche che snaturassero l’intento che restava – e resta ancora oggi – quello di una ironia capace di disinnescare algidità concettuali e contrizioni accademiche.

Si trattava di «saper ridere», si trattava di una sapienza dell’intelligenza, sia politica che affettiva – di tenore relazionale con se stesse e con le altre fino ad arrivare alla lettura del mondo e del proprio presente. Un progetto editoriale non da poco che ha previsto la tiratura di 1500 copie vendute in abbonamento e distribuite nelle librerie, poi il passaggio – dal numero 11 in avanti fino al 1992 – nel mensile Noi Donne in edicola. Negli anni in cui, all’interno della galassia fumettistiche, spiccavano nomi come quello di Grazia Nidasio in Italia e Claire Bretecher in Francia, le femministe di «Aspirina» conducevano incontri e organizzavano riunioni su temi che facevano parte della discussione politica pubblica. Con il graffio dissimulante di chi ha conferito all’ironia il significato artistico di una pratica appassionata, memorabili rimangono numeri monografici come «Donne in carriera, donne in bolletta» dedicato al lavoro, o «Aspirina ricostituente per le donne del Pci».
Con il mutamento della redazione online, ulteriori specificità si sono innervate alle precedenti, con il guadagno professionale di alcune presenze; insieme a Pat Carra, Piera Bosotti e Margherita Giacobino, l’impegno e la cura di Loretta Borrelli, Anna Ciammitti, Manuela De Falco, Elena Leoni, Livia Lepetit e altre fumettiste internazionali.
Il sottotitolo acquista dunque, dal 2013, l’espressione di «rivista acetilsatirica». Ma per Bayer è già solo l’omonimia a generare confusione. Considerata la «sensibilità» ci si può ben domandare come avrà reagito il colosso alla notizia di pochi giorni fa del suo crollo in borsa, provocato dalla sconfitta al processo contro il glifosato.

NASCE «ERBACCE»
Insieme ad alcuni testi sulla storia recente della rivista che, ricordiamolo, ha di recente ospitato sodalizi di splendore come le rubriche «Pensieri di una misantropa» (a cura di Giacobino e Sdralevich) oppure «Le sofistiche» (di Francesca Maffioli, Laura Marzi e Osuchowska), la casa delle nuove «erbacce» ha un divertente grafico illustrato in cui, con puntuale sagacia, ci si domanda in che modo si possa distinguere una rivista da un farmaco. Intanto se la prima è fatta di carta, la seconda è composta di plastica, le forme sono diverse ma soprattutto se una rivista è composta da immagini e parole, una pillola serve per curare patologie, una libreria contro una farmacia.
Eppure è nelle controindicazioni «gravi» che si comprende la vera distanza tra una e l’altra che è tutta simbolica: una rivista può essere denunciabile, un farmaco può invece nuocere alla salute fino a causare la morte. Anche in questa estrema circostanza, a sopravvivere intorno alla tomba, vi sarebbero comunque le erbacce.

Essendo scambiata per un alleggerimento licenzioso, è proprio all’ironia e alla sua alterazione paradossale e vigile che non si attribuisce il legittimo spazio. In questo vento fresco della libertà femminile, esperienza fondante del femminismo, è invece decisivo lo l’imprevisto. Ecco perché ancora una volta vanno lodate e ammirate le donne che hanno deciso di mettere al mondo «Erbacce». Mille ne fioriscano, hanno ragione ad augurarselo nella chiusa del breve ed efficace documento che ora si trova nel nuovo sito – senza editore.
Esorbitino le erbacce nella loro obliquità pervasiva, non sono rizomi come appendici abbandonate senza un perché, sono piuttosto la rappresentazione di occupare e invadere spazio, tutto lo spazio, di un inaddomesticato e vivente che il potere sogna inutilmente di assumere. Le erbacce invece resistono, sono «infestanti» nel senso letterale del termine ovvero perennemente «in festa». Crescono a una velocità sorprendente, di consistenza spesso urticante osservano mute e ostinate dove potersi dirigere. Si immagina di averle eliminate e invece si riproducono. Come tante staffette che orientano e poi fuggono da un capo all’altro dello spazio.
Che questo presente così complesso, in cui tra l’altro si abusa moltissimo di farmaci inutili, preferisca le erbacce fa ben sperare. Ci si immagina al sole, o sotto una luna grande, sopraffatte di meraviglia. Con gli occhi chiusi o davanti a un amore che sa di terra bagnata. Una prospettiva certamente più interessante di quattro pareti al sapore di semolino e bottiglia dell’acqua calda, magari con una pillola per l’influenza.