La chiave di lettura che Francesca Romana Recchia Luciani ha scelto di privilegiare rispetto alla vasta produzione di pensiero di Jean-Luc Nancy (nel libro edito da Feltrinelli, pp. 224, euro 16, a cura di Massimo Recalcati) non poteva essere più in sintonia con quel filo conduttore che ha attraversato, in un dialogare doloroso e felice, la sue vicende esistenziali e la sua ricerca teorica. Per una «ontologia corporea» o «filosofia del corpo pensato», nella definizione che ne dà Recchia Luciani, non deve meravigliare che l’immagine più convincente e suggestiva venga dal teatro.
In un breve testo del 2010, Corpo-teatro, la «performance di un filosofo», Nancy colloca sulla scena del mondo quella «materia concreta» che è l’Io: «L’esistenza vuol mettersi in scena (…) In questo senso un soggetto è un corpo. In verità finché si pensa in termini di «soggetto», si pensa ancora, volenti o nolenti, in termini di sostanza incorporea (…) Ci troviamo allora nell’ordine del corpo e del teatro. Il corpo è ciò che viene, si avvicina su una scena e il teatro è ciò che dà luogo all’avvicinarsi di un corpo (…) ’Io’ resta nella anteriorità assoluta del suo essere punto. I suoi occhi invece si aprono, e così la sua bocca e le sue orecchie, il suo corpo si estende, si espande, si dispone».

È NELLA PRAGMATICA DEL CORPO – la voce, il gesto, la postura, la mimica, ecc. – che va a collocarsi la parola. «I corpi parlanti hanno una parola corporea». Il corpo-teatro, conclude Nancy, precede tutti i culti e tutte le scene. La teatralità è innanzi tutto là dove ci sono corpi che si incontrano, si distanziano, si attirano, si mostrano gli uni agli altri.
Non poteva esserci una messa in discussione più radicale del dualismo tra corpo e pensiero che ha segnato e ancora segna, per certi aspetti, la metafisica occidentale. Ma è soprattutto nella singolare ricostruzione del rapporto tra l’Io e il proprio corpo che, giustamente, l’autrice trova l’originalità di Nancy, la sua ricerca di nessi tra la vita personale – esperienze intime, come il trapianto di un nuovo cuore all’età di cinquant’anni – e una delle realtà che oggi inquietano la convivenza sociale, e cioè la comparsa all’orizzonte del «diverso», lo «straniero», il «migrante».
Per comprendere la percezione del dissimile, incarnato in colei o colui che giungendo dall’esterno di una comunità ne interrompe la presunta omogeneità, egli ricorre a un parallelismo con la propria esperienza (…) di trapianto cardiaco e di malato oncologico (in seguito alle terapie antirigetto) come la sperimentazione in corpore vivo di una intrusione, anzi di più intrusioni ripetute nel tempo.

RICONOSCERE DI ESSERE un corpo esposto e vulnerabile, fino a diventare «straniero a sé stesso», e farlo attraverso una riflessione che parte da vicende personali, è ciò che permette a Nancy di scardinare in modo «inconsueto» alcuni temi centrali della tradizione filosofica, come «identità», «normalità», «estraneità».
Legato ai problemi più urgenti, prosegue la lettura di Recchia Luciani, è anche l’aver ripensato – nel libro La comunità inoperosa – la singolarità fuori da quel «naufragio» del rapporto tra sé e gli altri, che viene dall’individualismo dominante. «L’esistenza è solo se è condivisa, spartita», aveva scritto Nancy, è un «essere-in-comune», e la comunità una «comunità dei corpi».
L’incontro tra sé e gli altri avviene proprio sulla base di quella «esposizione», che è l’essere di ogni singolo/a, «come se la densità materica del corporeo, l’‘estensione’ stessa della cartesiana res extensa, avesse a un tratto preso il sopravvento rispetto a ogni altro possibile concetto atto a interpretare l’essere-con gli essenti». A essere destituita, in particolare nel libro Ego sum del 1979, è la soggettività egocentrata, che è stata così a lungo protagonista della filosofia occidentale.

SORPRENDENTEMENTE, è ciò che di più «impresentabile» segna il pensiero di Nancy – l’«essere inchiodato» dell’essere umano rispetto alla propria corporeità, «alla nostra natura puramente fisica, animale, biologicamente intrisa di un’incancellabile vulnerabilità, di una permanente sovraesposizione al pericolo, alla malattia e alla morte» – che finisce per diventare elemento di «rivitalizzazione», nell’esperienza del singolo come della comunità: la vicenda personale di un cuore che viene da «altrove» come un «intruso» a garantire la sopravvivenza, trasposta sulla comunità, si trasforma nella critica più convincente alle politiche sicuritarie, che vedono nei flussi migratori soltanto una minaccia.

MODIFICATI profondamente i rapporti tra privato e pubblico, tra il cittadino e le «acque insondate della persona» (Rossana Rossanda), il corpo sembra prendersi oggi la sua rivincita sulla scena pubblica. A entrare nel dibattito politico con la prepotenza delle loro ferite sono i corpi segnati dalla guerra, dalla fame, dalle catastrofi naturali, dall’invecchiamento della popolazione, dalle sperimentazioni delle biologie riproduttive, dalle mutilazioni genitali, dalla chirurgia estetica e dalla pubblicità.
Ma era importante riportare l’attenzione su ciò che il senso comune, così come la cultura alta, ancora conservano della separazione originaria da cui è nata la polis: lo spostamento di una parte inscindibile dell’umano – la sua radice biologica e le vicende che l’attraversano – che il sesso vincente ha fatto sull’altra metà del mondo.
La rilettura che Nancy fa della costruzione dualistica, fondamento di tutte le gerarchie e le forme di dominio finora conosciute, dal sessismo, al classismo, al razzismo, ecc., trova la sua radicalità proprio nella differenziazione tra anima e corpo. Come sottolinea Recchia Luciani, è l’inestensione dello spirito pensante che gli consente di «unirsi in toto» al corpo, piuttosto che coincidervi parzialmente.
«È un qualcosa né anima né corpo a dire ego», un flusso inarrestabile tra dentro e fuori, tra interiorità ed esteriorità. Si può scrivere il corpo? Nancy lo fa, paradossalmente, riconoscendo che la bocca viene prima della parola e che è attraverso la pelle che l’Io si tocca: «Bisogna prima di tutto che io sia un’esteriorità per toccarmi».

IL PENSIERO È SEMPRE per Nancy – conclude Recchia Luciani – anche «materialità pensante». Si tratta perciò di sfatare il mito della sua inconsistenza e intangibilità e sentire pienamente che «il pensiero tocca». Non solo si pensa con tutto il corpo, ma «ciò che si pensa, il contenuto dei nostri pensieri, è materiale, fisico, tangibile, sensibile in tutti i sensi».
Non c’è dubbio che, posta in questi termini, la ricomposizione tra Io e corpo, non solo porta la riflessione fuori dall’eredità della «rovinosa dialettica» (Elvio Fachinelli) della filosofia occidentale, ma costringe a sfatare anche il mito androgino, quel «matrimonio dei contrari» – il «miracolo che fa di due nature diverse un solo essere armonioso», per usare le parole di Sibilla Aleramo – che tanta parte ha avuto nel sogno d’amore, ma anche nell’idea, coltivata dalle donne stesse, della creatività, senza tenere conto che si trattava di una unione riportata non a caso sul maschile: l’«uomo femmina».