Alias Domenica

La rivendicazione dell’estetica, un gesto politico

La rivendicazione dell’estetica, un gesto politicoMassimo Bartolini, Chair, 1997, fotografia di Mariangela Insana

Critica dove sei Sarebbe un errore leggere le trasformazioni dell’editoria in termini morali o volontaristici. A essere cambiata è tutta l’industria culturale, non più parte di quella negoziazione di valori che è intrinseca alla democrazia liberale: quarta puntata di una discussione

Pubblicato più di 6 anni faEdizione del 13 maggio 2018

Quando si discute di crisi della critica letteraria, si oscilla generalmente tra due prospettive: una endogena, che tende a leggere quella crisi in termini prevalentemente «interni» (crisi di una disciplina, dei suoi protocolli epistemologici, dei suoi metodi), e una esogena, che sposta invece l’accento sulla funzione, oggi, della critica letteraria, sulle condizioni materiali, politiche, culturali in cui si dà la possibilità di praticarla, sul ruolo sempre più residuale degli studi letterari all’interno dei curricola scolastici e universitari e, più in generale, delle scienze umane, esse stesse brutalmente ridimensionate nei nuovi assetti del sapere nell’epoca del tardo capitalismo. Infine, sul crinale tra queste due direttrici, c’è una riflessione sulla prassi critica: da dove si parla, come si parla, a chi. I piani – non ci sarebbe quasi bisogno di sottolinearlo – sono strettamente legati l’uno all’altro, e separarli è un gesto non solo problematico ma in parte arbitrario. Nel contesto attuale, tuttavia, credo non si possa prescindere dalla prospettiva esogena.

Per cominciare, proviamo a rovesciare la domanda e chiederci non tanto perché oggi la critica letteraria sia in crisi, ma perché, almeno fino alla fine degli anni Settanta, sia stata una disciplina pilota nell’ambito delle scienze umane. Da dove le veniva quella sua centralità? Dal fatto che la letteratura era ancora, all’epoca, un tassello fondamentale nella formazione delle classi dirigenti? O perché era stata, per buona parte del Novecento, qualcosa di cui appropriarsi, da fare proprio, da strappare alle classi dirigenti, in una rivendicazione (di classe) dell’estetico, dell’immaginario, del sogno, di ciò che non è immediatamente «utile»?

Considerazioni di questo tipo guidavano, fino a una ventina di anni fa, editori che hanno svolto un ruolo importante in Italia: avevano un progetto e sulla base di quel progetto costruivano i loro cataloghi, operavano scelte. Oggi di questa editoria rimane ben poco, e le mutate condizioni hanno molto a che fare con la crisi di cui stiamo parlando, perché generano qualcosa come un double bind: i grandi editori (utilizziamo questa scorciatoia) non pubblicano più saggistica letteraria perché la critica è in crisi, la critica è in crisi perché i grandi editori non pubblicano più saggistica letteraria…

In ogni caso, le trasformazioni del mercato editoriale – grandi concentrazioni finanziario-produttive il cui progetto si riassume in una parola, profitto, difficoltà della piccola e media editoria, strozzate dai meccanismi spietati della distribuzione – non possono essere sottovalutate, soprattutto in Italia, dove l’editoria universitaria stenta a trovare un’identità e un profilo culturale «forte», a differenza di quanto accade in altri paesi, dove invece è spesso un’esperienza radicata, con una gloriosa tradizione alle spalle.

Sarebbe tuttavia un grosso errore leggere le trasformazioni dell’editoria in termini morali o volontaristici: non ci sono più editori «bravi», o coraggiosi… Il processo è strutturale e come tale va analizzato, imparando da Fredric Jameson. Ad essere cambiata è l’industria culturale nel suo complesso, fino a un po’ di tempo fa parte di una negoziazione di valori intrinseca alla democrazia liberale. Oggi ci troviamo – per dirla con Colin Crouch – in una fase di postdemocrazia, in cui quella negoziazione non si dà più (è uno dei problemi che proprio Jameson ha posto in tanti suoi scritti): ad essa si è sostituito un altro modello, la governance neoliberale e il dominio dei mass media.
In questo quadro, sono cambiati anche gli «agenti di legittimazione», o si sono assottigliate, talora fino a scomparire, le mediazioni (tutte funzioni decisive svolte dalla critica), come dimostrano molteplici fenomeni emersi nella rete, dai book-blogger alla rilevanza dell’intervista come forma in cui l’autore parla per sé, senza bisogno che qualcuno parli per lui o su di lui; fenomeni che sono al tempo stesso sintomi e risposte. Quali che siano le strategie di aggiramento o di resistenza, dunque, la crisi della critica letteraria è anche una questione squisitamente politica.

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