La Riserva dello Zingaro nel cuore poetico e linguistico della Sicilia
SCAFFALE «A macchia e u jardinu. La macchia e il giardino», di Giuseppe Cinà edito da Manni
SCAFFALE «A macchia e u jardinu. La macchia e il giardino», di Giuseppe Cinà edito da Manni
L’agile volumetto di Giuseppe Cinà, A macchia e u jardinu. La macchia e il giardino (Manni, pp.111, euro 13,00, prefazione di Giuseppe Traina), presenta una nota ampia in cui l’autore, architetto e urbanista, si premura di documentarci la geografia dell’anima tramite cartografia storica: la trapanese Riserva dello Zingaro, presso Castellammare del Golfo, ove si trova «un ristretto territorio rurale denominato Sparauli», nido dell’opera.
UN’ESIGENZA documentale che dalla storia del territorio si allarga a quella della sua microcomunità e giunge allo scrupolo d’indicare le coordinate della miscidanza linguistica dei componimenti, non dimenticando di concludere con un breve regesto di notazioni tecniche sull’ortografia. Medesimo atteggiamento l’autore tiene con il corpo del testo poetico, informandoci che nella prima parte (Cuntu ri Sparauli- Racconto di Sparauli) la voce poetante è quella dell’autore medesimo, nella seconda (Za Rosa) di «una vecchia contadina cresciuta all’interno di Sparauli», mentre dei testi in lingua a fronte se ne indica sì la funzione di servizio, ma anche l’intento «di pervenire a un costrutto dotato di una pur semplificata impalcatura poetica».
In altre parole, Cinà si colloca in un’area culturale e, vorrei dire, morale d’importanza primaria oggi la quale, segnalando i danni ambientali e culturali della grande trasformazione della modernità, intende indicare l’urgenza di un ripensamento e anche di un recupero. Per rimarcarlo, l’autore si pone in modo esplicito tra la propria voce poetica e il suo lettore.
SITUAZIONE davvero interessante, questa, perché la pressione documentale e persino pedagogica apre una frattura tra Cinà poeta – privato e ignaro per dir così del grande mondo – e Cinà adulto, che sa «di greco e di latino», accanto appunto al proprio lettore. Il rischio è di confermare nel suo conforto il lettore medesimo. L’opposto di quanto accade, mettiamo, a quello verghiano, gettato in un tour de force di sopravvivenza, non alleviato dalle fate morgane di luoghi falso-noti.
La prima parte, di ventidue componimenti, è costituita da altrettante brevi descrizioni di microeventi in presa diretta del paesaggio naturale, rarissime le presenze umane, più insistite nella conclusione. Il dialetto agevola e forse indirizza, come accade in una vasta area della poesia dialettale, la rimemorazione. Lingua materna per eccellenza, tanto più forte quanto più essa è distante dall’italiano e quanto maggiore è stato l’apprendistato all’età adulta della cultura, linguistica e sociale, essa rende possibili confidenze altrimenti impensabili e addirittura rimosse. Cinà giunge per questa strada a esiti suggestivi dove, scomparso il tempo storico, un’alba, uno scroscio di vento, l’ondeggiare d’un campo d’avena appaiono sgorgare dall’origine innocente del mondo.
LA VENA NUTRITIVA è dunque un trasporto vitalistico, che a volte accede alla nostalgia, più evidente quando affiorano figure umane, come nella toccante e rattenuta rievocazione paterna: «Ah, patri miu, si putissi virìriti na vota…/ comu antica luci ca trimulìa/ ntra i fitti fugghiami/ ri sti àrbuli ancora vivi,/ pensu ca t’attruvassi a taliàrimi/ cu na sprissioni sirena,/ p’unn ammustari i to granni pinseri».
SENSIBILE È IL CAMBIO nella seconda parte, che si vuole voce di una vecchia contadina cresciuta, appunto, a Sparauli. La parola, non più in presa diretta, accampa in primo piano l’io narrante. La lirica dei minimi eventi naturali cede alla cantata autobiografica della vita di Za Rosa, di cui i gli undici componimenti sono altrettante tappe. Le necessità pratiche e materiali, il rapporto tra sé e il padre – protagonisti incontrastati della seconda parte – occupano ora l’intero quadro, coerentemente con il mutato punto di vista.
E tuttavia si avverte, a mio parere, sotterraneamente uno iato tra quei fatti e la voce che ce li riferisce. Le vicende rurali del lavoro, dell’accudimento di cose, piante e animali che saturano il giorno corrono il pericolo del calligrafico, dell’eccesso di levità, anche se il racconto riesce ad asciugare la tentazione non piccola della nostalgia.
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