Cultura

La rischiosa industria delle idee

La rischiosa industria delle ideeIkon Images / Ap

TEMPI PRESENTI Riflessioni intorno al libro del sociologo Paolo Perulli, «Anime creative», uscito per Il Mulino. Le intelligenze artificiali potrebbero spezzare l’alleanza tra materia e sentimenti, saltando il filtro umano. Un numero esiguo di città ha raccolto tutti i benefici dell’enorme sviluppo economico generato dal trinomio tecnologia, talento e tolleranza. Pur considerandosi outsider, avanguardie anticonformiste, lavorano per multinazionali che dominano la cultura, la politica e la finanza, afferma Rebecca Solnit

Pubblicato 4 mesi faEdizione del 11 giugno 2024

La grande fabbrica della creatività, che l’Enciclopedia Treccani declina come «quella capacità della mente che si traduce nella produzione di innovazioni nei processi di conoscenza e di dominio del mondo oggettuale», nasce dall’incrocio tra il pensiero riflessivo europeo e il pragmatismo americano, e ha come spazio la città: Parigi nel XX secolo e oggi New York e San Francisco.
Questa «industria delle idee applicate al mondo delle cose», come la definisce il sociologo Paolo Perulli in Anime creative (Il Mulino, pp. 201, euro 17), è un prodotto della modernità occidentale. Affonda le radici nella cultura artistica, filosofica e letteraria europea, ha come «protocreatori» Prometeo e il Faust e non esisterebbe senza le riflessioni sull’individuo di Friedrich Nietzsche, sulla condizione umana di Hannah Arendt e senza le teorie sulla «distruzione creativa» del capitalismo dell’economista austriaco Joseph Schumpeter.

SECONDO L’AUTORE, fu quando gli artisti e gli intellettuali europei in fuga dal nazismo approdarono oltreoceano e incrociarono un pensiero più votato all’azione che si prepararono le condizioni perché nascessero i creativi moderni. Il progresso tecnologico e il mercato globale hanno prodotto poi il duplice effetto di rendere le opere seriali e, allo stesso tempo, di moltiplicare i creativi. Nell’arco di quasi un secolo, siamo così passati dagli atelier parigini alla factory newyorchese, dove il perimetro della fabbrica dell’immateriale coincide con quello cittadino, o meglio dei quartieri in cui vivono e operano artisti e designer, creatori di siti web e freelance dell’industria culturale.

Basta andare a Williamsburgh, il quartiere delle ex fabbriche trasformate in ristoranti o in appartamenti e degli hipster a Brooklyn, per osservarla a occhio nudo. Gli altri continenti sono invece rimasti esclusi da questo connubio tra pensiero e mercato che è alla base della produzione creativa. Solo l’Asia, per ora, è «un immenso laboratorio di riproduzione (anche se potrebbe diventare il prossimo salto di un’umanità dominata dalla tecnica)». Qui Perulli intravvede un primo rischio: che la serialità reprima la creatività e le intelligenze artificiali spezzino quell’alleanza tra materia e sentimenti che ne è alla base, perché senza il filtro umano non è possibile alcuna scintilla creativa.
Le «anime creative» del XXI secolo sono figlie delle avanguardie artistiche e delle utopie tecnologiche del Novecento. Sono ricercatori universitari e scienziati, stilisti di moda e architetti, lavoratori della cultura e programmatori di software, registi cinematografici e designer, freelance dell’informazione e blogger. Tutti partecipano a una continua gara, una sorta di «Olimpiadi del sapere», dove partono sempre in svantaggio perché le regole le detta chi detiene i mezzi di produzione, che siano i proprietari delle piattaforme web o delle gallerie d’arte.

LA RIPRODUCIBILITÀ TECNICA, colta già un secolo e mezzo fa dal poeta francese Charles Baudelaire e, più avanti, teorizzata dal filosofo tedesco Walter Benjamin, li ha resi protagonisti della nostra epoca. Secondo Perulli, oggi sono la «principale forza produttiva sociale» e i «protagonisti della società dello spettacolo», e il loro lavoro ha la funzione di «creazione di valore per il capitale», con il paradosso che, «nella società di massa, il massimo di innovazione rischia di rovesciarsi nel massimo dell’omologazione», ha fatto notare il filosofo Roberto Esposito in una recente intervista. «Era come se un intero mondo di intellettuali e artisti ricevesse una sovvenzione multimiliardaria dal settore tecnologico. Pensavamo che alle piattaforme di streaming interessasse veramente l’arte. Ma ci sbagliavamo», ha detto Alena Smith, la sceneggiatrice della serie Dickinson per Apple tv, ad Harper’s magazine.

I creativi guadagnano in media il doppio dei lavoratori della classe media tradizionale e vivono in grandi città: si stabiliscono in quartieri nei quali si ritrovano e dove attirano investimenti per sfruttare le loro competenze. In questo modo, aprono la strada alla cosiddetta «gentrificazione», cioè una crescita dei prezzi delle case e di ogni genere di beni che provoca un aumento delle disuguaglianze sociali e in molti casi l’espulsione degli abitanti autoctoni. A causa di questo meccanismo messo in moto da loro stessi, finiscono per ritrovarsi accerchiati da una gran massa di poveri.

IL FENOMENO è così esteso che persino lo statunitense Richard Florida (teorico di studi urbani ed economista), che nel 2002 aveva teorizzato l’ascesa della classe creativa, considerandola un fattore di crescita economica, è stato costretto ad ammettere il risvolto negativo della creazione di quartieri a misura di creativi. In un’intervista al sito web Tribes ha detto che «un numero relativamente esiguo di città ha raccolto tutti i benefici dell’enorme sviluppo economico generato dal trinomio tecnologia, talento e tolleranza». In cinquanta città globali, dove lavora il 7 per cento della popolazione, viene generato il 40 per cento dell’economia mondiale e l’85 per cento dell’innovazione. Ciò ha provocato un fenomeno che Florida stesso ha definito di «segregazione».

Vuol dire che «i prezzi delle case di alcuni quartieri sono saliti a dismisura e i meno abbienti hanno dovuto abbandonarli, gli speculatori trasformano i palazzi in investimenti e le case vengono lasciate vuote», e «tutto questo ha decimato la classe media». «Come si abita la città creativa, se alle sue porte e perfino al suo centro si estende una grande popolazione priva di casa, di sicurezze e di cultura?», si chiede Perulli.
La punta estrema di questo fenomeno è la California della ideologie libertarie post-sessantottine e delle start up tecnologiche nate in un garage e in pochi anni diventate multinazionali. Qui, spiega Perulli, si è realizzata pure un’inedita sinergia tra ricerca militare, mercato e controcultura libertaria. La scrittrice americana Rebecca Solnit ha raccontato sulla London Review of book (l’articolo è stato pubblicato in Italia su Internazionale alla metà di maggio) la trasformazione di San Francisco da quando è stata «completamente inglobata nella Silicon Valley» e ci vivono «i dipendenti di queste aziende», che «si considerano degli outsider, un’avanguardia anticonformista, ma lavorano per multinazionali che dominano la cultura, la politica e l’economia…. Producendo picchi estremi di ricchezza, la tecnologia sta creando una sorta di sistema feudale, con una manciata di potenti che non rispondono a nessuno».

I CREATIVI SONO «aperti, liberal, progressisti», ma non si comportano come una classe sociale, cioè in grado di avere una centralità politica. La ragione, per Florida, sta «nel continuo turnover individuale e nell’esasperata mobilità sociale e geografica» che gli impediscono di avere una «visione collettiva», di classe appunto. Non da ultimo, nella frammentazione del lavoro e nella sua precarietà, soprattutto in Italia dove i creativi non hanno potere e sono lavoratori poveri perché, a differenza che in altri paesi europei e negli Stati Uniti, né lo Stato né il mercato hanno attenzione per loro. Roberto Ciccarelli, in Forza lavoro. Il lato oscuro della rivoluzione digitale (Deriveapprodi, 2018), ha scritto che per freelance, startupper e imprenditori di se stessi, al servizio degli algoritmi e di chi li governa, «il desiderio di essere liberi e autonomi nel praticare la propria vita si traduce nella volontaria subordinazione a un imperativo che ne nega la potenza».

L’auto-sfruttamento così diviene la regola. Secondo l’Istat, nel nostro Paese metà degli artisti vive sotto il livello di povertà. Invece, «avremo molto bisogno dei creativi nella grande crisi che si prepara, ed essi potranno diventare infine, più ancora che in passato, decisivi», conclude il sociologo.

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SCHEDA. Neoplebe, quella galassia dei «vecchi ceti medi»

In un altro libro scritto con Luciano Vettoretto, Neoplebe, classe creativa, élite (Laterza, 2022), Paolo Perulli – che ha insegnato Sociologia dei processi economici e del lavoro all’Università del Piemonte orientale – ha analizzato come la società italiana sia cambiata negli ultimi decenni.

Ha raggruppato 129 figure professionali censite dall’Istat in Italia in tre «strati principali». Ci sono innanzitutto le élite del potere politico, economico-finanziario e burocratico. Poi c’è la classe creativa, che comprende le occupazioni tipiche dell’economia della conoscenza: «specialisti delle scienze dure, economisti e specialisti di management e finanza, scienziati sociali e delle discipline storico-umanistiche, medici, architetti e ingegneri, le occupazioni a maggior qualificazione nella sfera artistica, culturale e del leisure, e il nuovo segmento dei professionisti indipendenti, gli independent professionals e i freelancers ad alto contenuto di conoscenza», e pure «gli imprenditori di aziende di piccola dimensione nei settori economici knowledge intensive e ad alto valore aggiunto (chimica, farmaceutica, fabbricazione di computer, biomedicale e altri prodotti elettronici, autoveicoli, meccanica di precisione, attività editoriali e di informazione, telecomunicazioni, ricerca e sviluppo, marketing».

Infine c’è la galassia della neoplebe, composta dai «vecchi ceti medi, la new and old petty bourgeoisie, la nuova classe operaia legata ai processi di digitalizzazione e automazione, l’ormai ridotto segmento degli imprenditori della piccola impresa tradizionale, i mestieri tradizionali, il ceto impiegatizio a modesta qualificazione e le ‘burocrazie di strada’, il proletariato dei servizi (e, in misura minore, i salariati agricoli e le mansioni non qualificate nel manifatturiero)».

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