Dineo Seshee Bopape diffida della parola «intelligenza». Lo dice in un’intervista, specificando che quel termine è altamente colonizzante e, soprattutto, rivela l’attitudine arrogante e antropocentrica nei confronti di altre specie viventi: si prova empatia con le piante solo se «smart», unico attributo che le impreziosisce.
L’artista sudafricana (nata a Polokwane nel 1981, vive a Johannesburg), nella sua vita nomadica, sempre divisa fra una residenza e l’altra per portare a termine i propri progetti, è convinta che la natura possa semplicemente essere se stessa e noi tutti, interconnessi sia per questioni fisiche che spirituali, figuriamo come un arcipelago di compresenze.
Seshee Bopape, in quel suo girovagare per il mondo porta con sé, oltre ai ricordi che costruiscono nuove «case» simboliche, anche vari materiali terrestri e celesti, le fragranze delle erbe officinali, le costellazioni delle galassie negli occhi, le argille delle terre solcate dai corpi disperati degli schiavi.

LA TRATTA DEGLI UMANI, infatti, lei la ripercorre con una geografia sentimentale che mette in atto prelevando pugni di sabbia dalle diverse coste toccate da quel traffico demoniaco e poi usandole per disegnarci oggi, in sovrimpressione su diapositive, lasciando tracce da rivivere e rielaborare nel nostro presente. Oppure, la ritrova nelle acque degli oceani, lì dove gli squali inseguivano le navi negriere in attesa dei cadaveri di chi non ce l’aveva fatta come ricca fonte di cibo.
UN SUO VIAGGIO post-coloniale è anche quello che ha proposto su grandi, avvolgenti schermi a Venezia nell’ambito del progetto commissionato e prodotto da TBA21 Academy presso Ocean Space (nella chiesa sconsacrata di San Lorenzo).
Giungendo alle isole Salomone, l’artista insegue una rotta personale e interiore che la condurrà verso le piantagioni del Mississippi fino alla Giamaica, per poi fare ritorno a casa, in Sudafrica. L’oceano diviene così una infinita distesa di accadimenti, un corpo parlante che trasmette memoria storica e psichica, rituali perduti.
Nello spazio Pirelli HangarBicocca di Milano – dove si è appena aperta la sua prima mostra antologica italiana – riappare, con un allestimento diverso, quella installazione potente ad accogliere i visitatori che procedono nella penombra.
A cura di Lucia Aspesi e Fiammetta Griccioli, l’esposizione dal titolo Born in the first light of the morning (moswara ’marapo), evoca in quella visione magica di un’alba la possibilità di una rinascita e si snoda fra luci e improvvisi buchi di buio, disseminata di essenze odorose, sprigionate dai tetti delle capanne impastate nel fango tradizionale, ceneri che bruciano, suoni dei mari e degli uccelli (come il quetzal, volatile ritenuto sacro in Centroamerica perché, una volta smarrita la libertà, si suicida). Il percorso rispecchia in ogni opera la doppia identità voluta fortemente da Seshee Bopape: i titoli, infatti, oltre all’inglese, conservano al loro interno la traduzione in SePedi, una delle lingue bantu del Sudafrica.
La mostra milanese di Dineo Seshee Bopape allarga il respiro del tempo. C’è quello geologico inciso nelle rughe delle zolle di terra, quello cosmico che sfonda con la sua poesia luminosa il tetto delle capanne, e quello umano che si mescola alla storia di tutte le creature viventi, lanciando una rete di connessione anche con le energie dei minerali.