La rinascita di Ferretti e Zamboni
Incontri Un (re) incontro storico che ha visto i due artisti protagonisti di un rendez-vous condotto dal giornalista Michele Rossi.
Incontri Un (re) incontro storico che ha visto i due artisti protagonisti di un rendez-vous condotto dal giornalista Michele Rossi.
Sono dei senza età, ora conta solo il tempo che resta loro. Entrano al buio, illuminati dai flash, lenti e frastornati, rimbombano le loro parole già di tutti “verranno al contrattacco con elmi ed armi nuove/verranno al contrattacco ma intanto adesso/curami”, e tutti saltano in piedi ad applaudire e loro due nemmeno lo sguardo alzano, eccoci. Si guardano le mani immacolate, accennano un sorriso al pavimento che riflette tutto, sanno della presenza dell’altro, se ne curano, raramente incroceranno lo sguardo. Hanno le sembianze dei reduci, sono dei reduci. Vengono acclamati perché sono i frutti del loro passato. E il passato di tutti i presenti all’evento di punta de “Il Rumore del lutto”, giunto alla sedicesima edizione in quel di Parma, un contenitore culturale che ha l’ambizione – finalmente – di individuare un nuovo spazio dedicato alle riflessioni sulla vita e la morte, il prima e il dopo, al passato che ritorna, al futuro che non ci sarà più.
Giovanni Lindo Ferretti e Massimo Zamboni. Ex CCCP, C.S.I., PGR, ex tutto. Nell’aria ci sarebbe pure voglia di celebrazione. Di annunci in grande stile, gli eterni ritorni, la reunion. Ma nessuno se ne cura, figurarsi preoccuparsene. Quei due non sono tipi, vince la terapia di gruppo, necessaria, vera. E allora il tutto diventa un racconto per immagini, di riconoscersi a prima vista. I baffi di Ferretti nel 1977 sullo sfondo, gli stessi che si liscia continuamente mentre il compagno di una vita fa, Zamboni e le sue perenni mani sulle ginocchia, scandaglia gli aneddoti sparsi, inutili e fondanti come da personaggio, del suo cantante «perchè quello che cantava era mio, lo faceva per me, e quello che suonavo io era suo».
«Le storie finiscono, siamo morti, sì, perché si muore, «ma è stata una morte naturale, nel nostro letto»
Sembra un verso dei C.S.I. e invece è puro distillato Ferretti: «eravamo dei fuori posto, siamo arrivati tardi, ma abbiamo fatto quello che andava fatto, dopo potevamo anche morire». Hanno avuto la possibilità di ricreare un mondo tutto loro, congeniale e senza futuro, poi qualcosa è cambiato. Zamboni parla dolce, misura le parole, i pensieri sono circolari. Ferretti è velocissimo nella parlata, scattoso, differiscono pure nel modo di pronunciare CCCP. Ma convengono che questa è stata la storia dei loro sentimenti, lo ripetono in coro – eufemismo. Sopratutto della fine dei sentimenti – non diranno mai le parole amore, amicizia. «Volevamo scomparire» (Ferretti col sorriso). «Le storie finiscono, siamo morti, sì, perché si muore» (Zamboni, che guarda in terra), e ancora, «ma è stata una morte naturale, nel nostro letto», la chiude Ferretti, per non riaprirla più. Il miglior corteo funebre possibile. E dopo la messa in scena della propria fine, – come se fossimo in un romanzo di Bellow, lo sono? – arriva la resa dei conti.
PER LA PRIMA VOLTA Ferretti sembra interdetto perché «il passato incombe sul presente che incombe sul futuro che incombe…», per poi dirsi addosso, «ma non te la menare Ferretti». E qui le parti non si invertono ma si solidificano, non si estremizzano, ancor di più. Perché se Ferretti si ritiene «una cellula dormiente appena risvegliata e che andrà gestita perché non sa che fare» e insomma sì, lascia intendere che sì, io ci sono se voi ci siete, Zamboni ammette che «parlare è una terapia, il nostro è uno scambio segreto di emozioni». Tutto sembra prezioso in questo riavvicinamento, benché il luccichio sia diverso, se più maturo o più imberbe non sembra importare loro.
TRATTASI allora di nostalgia? Non canaglia, ma collettiva? O «di ineluttabilità della vita»? Nulla di tutto ciò, sembra esserci la voglia di ritrovarsi adulti, al di là delle ideologie – ed è un bene che non si sia parlato degli attuali credi politici dei presenti. Vanno al sodo delle loro vite. «Una sorta di simbiosi, – ancora Zamboni – che non è reclamare un valore». Per poi soffermarsi a parlare dell’essere montanaro, dice che ci vogliono trent’anni di montagna per definirsi tali, che non è clausura ma un allargamento. E forse ce ne vogliono quaranta per definirsi un CCCP, o un fan fedele alla linea. Poi Ferretti conclude messa serafico, risolutorio: «dentro di me c’è tutto il rumore di chi c’è stato, di chi c’è e di chi ci sarà: la montagna ti serve per non sentire quel fragoroso rumore del lutto, che incombe su chi rincorre il presente». C’è il firma copie – la fila infinita, tutti hanno un aneddoto. Zamboni chiede solo il nome del dedicato, Ferretti non si trattiene, lo prende in giro. Uno della prima ora gigioneggia con i suoi idoli. Se ne va alzando la voce, ci vediamo al primo concerto dei CCCP, dice. Zamboni sorride sornione, Ferretti alza gli occhi accesi, «ma quello è il passato». C’è futuro.
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