La rimozione della parte ebrea di noi
Liliana Segre ha detto una cosa che nessuno osa dire: «La gente è stufa di sentire parlare degli ebrei. Tra un po’ sui libri di storia sulla Shoah ci sarà solo una riga». Esternazione che nasce dalla giusta esasperazione di sentirsi testimone di un passato catastrofico che sempre di più sbiadisce e rischia di scomparire di fatto dalla nostra memoria affettiva: diventare un ricordo che è una concezione, non più una ferita psichica interrogante.
Restano più vivi dentro di noi i ricordi delle catastrofi naturali (soprattutto se, come è accaduto con Pompei, la vita interrotta riemerge drammaticamente) e delle catastrofi militari (le guerre devastanti le civiltà) perché il loro concreto “eterno ritorno” spaventa tutti.
I ricordi delle catastrofi psichiche (della disumanizzazione) sono vulnerabili. Perché questi ricordi restino nel nostro mondo interno e non siano esiliati -come narrazioni a posteriori- in polverosi archivi storici (digitali o cartacei), è necessario che le catastrofi affettive che sono il loro oggetto (incluse quelle che accompagnano le catastrofi naturali e le guerre) siano riparate attraverso un processo di lutto (attivato dallo stesso dispositivo catartico presente nel teatro tragico). Di modo che l’oggetto distrutto e perduto, possa essere recuperato psichicamente, tornare a vivere dentro di noi e al tempo stesso nella vita esterna in forme e modalità nuove.
La catastrofe non è ricordata, cancella l’affetto e quindi anche la memoria vera. Ciò che resta come ricordo è il dolore dei sopravvissuti (che fa vivere anche il dolore dei morti), se questo dolore non resta impotente, immobile, ma fa persistere la mancanza di ciò che non c’è più e riapre la strada al desiderio di farlo riabitare il mondo. La memoria del passato è possibile se guarda al futuro. La memoria della Shoah vivrà veramente dentro di noi se diventerà memoria del nostro futuro.
Questa memoria è oggi debole, perché non abbiamo mai riconosciuto fin in fondo la nostra responsabilità per ciò che è accaduto e non abbiamo fatto una vera elaborazione del lutto. Lo sguardo degli europei si è voltato perlopiù da un’altra parte nel momento degli rastrellamenti e lo sterminio di milioni di nostri fratelli si è consumato in silenzio (la cecità e la sordità si sono fatte strada nei nostri cuori). E successivamente, quando c’è stato l’esodo verso l’Israele, non abbiamo capito che un altro pezzo della nostra vita, della nostra casa se ne stava andando.
L’abbiamo mai riconosciuta la perdita? Ne abbiamo mai fatto il lutto? Abbiamo sostituito il lutto con la creazione dello Stato di Israele, come se ciò ci assolvesse dalle nostre responsabilità o risolvesse la nostra mutilazione prodotta dalla fuga degli ebrei. La nostra ambivalenza nei confronti di Israele non ha la sua origine nella sua politica (prigioniera di tutte le contraddizioni dell’Occidente), ma nel fatto che nella sua creazione abbiamo fatto confluire il disinvestimento di una parte di noi e abbiamo, al tempo stesso, colto la possibilità di liberarci del nostro senso di menomazione.
Sentire parlare di ebrei «stufa», perché tocca il problema, mai risolto davvero, dell’abbandono di una parte di noi. Quella perennemente eccentrica al nostro centro di gravità, inclinata verso la diversità che storicamente gli ebrei hanno rappresentato simbolicamente più di qualsiasi altra componente della nostra cultura comune. L’ebreo ci perturba perché è il familiare, una parte di noi rimossa, che risorge a causa della sua persistenza salutare, dal luogo dell’ estraneità in cui l’abbiamo collocato.
Il rimosso torna sempre. Per anni abbiamo vissuto su un compromesso che salvava capra e cavoli. Le nubi che hanno anticipato ciò che accadde un secolo fa tornano minacciose. Rimuoviamo ancora, rifugiandosi nella retorica o nella realtà «parallela» e sarà uragano. Se non recuperiamo l’ebreo che siamo stati, che siamo, sarà difficile restare umani.
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