Fuori dall’aula della camera dei deputati, quando ormai la cerimonia per il varo della «nave delle riforme» volge al termine, il ministro Quagliariello corregge alquanto le attese. È vero, il governo ha legato le sue sorti al processo di revisione costituzionale – «Se non si chiude in 18 mesi non esiterò a trarne le conseguenze», aveva detto Enrico Letta nel discorso programmatico, un mese fa; ieri lo ha ripetuto. Il conto alla rovescia era partito già allora, i più generosi lo hanno immediatamente spostato in avanti ieri, termine ultimo aggiornato: dicembre 2014. Un’eternità per un governo appeso ai quotidiani malesseri delle larghe intese, un’eternità che Quagliariello prudentemente allunga. «Il termine dei 18 mesi partirà da quando sarà stato approvato il disegno di legge costituzionale che modifica la procedura di revisione prevista dall’articolo 138 – spiega il ministro – dunque ragionevolmente da fine settembre». Che è persino una previsione ottimista. E così i 18 mesi sono già diventati due anni e l’operazione riforma della Costituzione, nella quale l’esecutivo si è lanciato trascurando altre urgenze, si può comprende un po’ meglio. Non è una nave, ma una scialuppa di salvataggio per il governo. Ragionevole dunque che nella lunga giornata di dibattito sulle mozioni, ieri, lo spirito costituente non sia riuscito a farsi spazio tra una trappola dei renziani, una lezione di diritto di Calderoli e un ultimatum di Brunetta. Dove c’era Benedetto Croce che invocava il Creator spiritus per i costituenti, c’è Quagliariello che fa i conti con il calendario.
«Ci vediamo più tardi», dice alle 10.20 del mattino il presidente del senato Grasso a Enrico Letta, salutandolo assai informalmente quando il presidente del Consiglio lascia palazzo Madama per proseguire a Montecitorio. Il dibattito va avanti in parallelo e alla fine della giornata porterà all’approvazione della mozione di maggioranza, identica nelle due camere, ma anche per quieto vivere a quella della Lega, che invece ricordava a Letta i suoi impegni ormai caduti sulla Convenzione. Bocciata la mozione di Sel, che con grande sorpresa di Letta vota contro il documento della maggioranza – al premier avevano fatto capire che ci sarebbe stata un’astensione. Strana la maggioranza, strana la sua mozione: c’è dentro un impegno per il governo (quel che dovrebbe stare negli ordini del giorno) che equivale a una delega. L’esecutivo dovrà presentare entro giugno un disegno di legge costituzionale per cambiare l’articolo 138, rendendo il processo di revisione costituzionale da un lato più stringente – la facoltà di chiedere comunque un referendum o più referendum (l’equivoco resta) confermativi, a prescindere dal quorum con il quale verrà approvata la riforma in parlamento – dall’altro più sbrigativo – un comitato di 40 deputati e senatori che sostituisce il lavoro referente delle commissioni affari costituzionali, probabilmente anche la riduzione del cosiddetto intervallo di riflessione di tre mesi tra la prima e la seconda deliberazione.

La delega finisce con l’essere addirittura doppia, perché nella mozione si mischiano aspetti procedurali con assai ampi aspetti di merito: la modifica dovrà riguardare praticamente tutta la seconda parte della Costituzione, quattro titoli su sei, parlamento, presidente della Repubblica, governo e regioni, province e comuni; restano fuori solo magistratura e corte costituzionale. E nel frattempo di legge elettorale non si parla, perché il compromesso raggiunto tra il Pd e il Pdl prevede che l’argomento venga rimandato a quando la nave sarà giunta in porto, a meno che «si realizzino condizioni che rendono urgente un intervento in materia», cioè a meno che la Consulta non bocci la legge con la quale è stato eletto il parlamento. Che sarebbe una sconfessione di fatto delle camere, anche se non di diritto perché nel sistema attuale tutto il potere è delle giunte per le elezioni che decidono (quella del senato non è ancora perfettamente insediata, stante il caso Berlusconi) senza possibilità di appello.
Consapevoli tutti della strumentalità dello sforzo riformatore, del suo essere a servizio della tenuta del governo, la discussione è allora scivolata via lenta ma tranquilla. Tra un Gasparri che esalta la «foto gollista» di Napolitano che riceve i presidenti delle prime commissioni e il ministro al Quirinale, Scilipoti che tratteggia i rischi dell’antipolitica, Crimi che si confonde col latinorum chiamando Porcellus il Porcellum proprio mentre a presiedere l’aula del senato c’è il «padre» Calderoli, le preoccupazioni del senatore del Pd Chiti e della deputata Bindi sul mandato troppo ampio al comitato dei 40, il nervosismo di Nitto Palma contro il presidente Grasso, la sfortuna del renziano Giachetti di dover annunciare proprio lui da presidente di turno della camera che 12 deputati ritirano la firma dalla sua mozione per il ritorno al Mattarellum. Allora e solo allora qualche palpito ha percorso le aule, con il Pd a fare i conti dei possibili «traditori» della non belligeranza con il Pdl e il Pdl preoccupato di veder soccombere l’amato Porcellum. Almeno fino a quando il Movimento 5 Stelle non si è schierato anche lui per una revisione della legge in vigore piuttosto che per la sua cancellazione. Se ne riparlerà: sembrava un problema urgente, da ieri è prematuro.