Lo show dell’informativa dell’ormai ex ministro Terzi è stato infarcito di mistificazioni, frasi dette a metà, omissioni. Proviamo a integrarlo per avere una visione più completa del complesso caso dei due marò, un ginepraio di codici internazionali e ricostruzioni caotiche dell’incidente del 15 febbraio 2012, quando i sottufficiali di Marina Massimiliano Latorre e Salvatore Girone hanno sparato contro il peschereccio indiano St. Antony.

In mare aperto

Terzi, davanti alla camera dei deputati, ha sostenuto che anche l’India avesse ammesso che l’Enrica Lexie, quel pomeriggio, si trovasse «in acque internazionali»: affermazione che non trova alcun riscontro in nessuna dichiarazione ufficiale delle autorità indiane né, tantomeno, nella lunga sentenza pronunciata dalla Corte suprema indiana il 18 gennaio, pubblicata in versione integrale sul sito della massima corte indiana. Nelle oltre cento pagine non si dice mai «acque internazionali», bensì «non in acque territoriali», che sembra la stessa cosa ma non lo è.

La petroliera italiana, dicono le rilevazioni satellitari e ammette la stessa difesa dei due marò in India, si trovava a 20,5 miglia dalla costa del Kerala, nella cosiddetta zona contigua, tratto di mare che, secondo la United Nations Convention on the Law of the Sea (Unclos), si estende fino a 24 miglia. In quell’area la giurisdizione dello stato è limitata a questioni di fisco, immigrazione, sanità e dogana: quindi, seppure non c’entri direttamente col nostro caso, la zona contigua non rientra nelle acque internazionali.

Quando Terzi dice che la giurisdizione secondo le leggi internazionali è italiana, si dimentica di ravvedere che sì, l’India ha firmato e accettato la Unclos, ma l’ha fatto con due riserve, cioè dichiarando di non aderire a due punti della Convenzione. La prima riserva (articoli 287 e 298) ha proprio a che fare con le indicazioni circa la delimitazione della giurisdizione nazionale nelle acque fino a 200 miglia (zona economica esclusiva). In sostanza, l’India difende il diritto di decidere, caso per caso, come procedere qualora si verificassero reati commessi entro 200 miglia dalla costa. In virtù di questa riserva, infatti, il codice di procedura criminale indiano con la section 188a estende la completa giurisdizione dello stato fino alle 200 miglia nautiche. Tradotto dal legalese: l’India potrebbe avere solide basi per decidere di avocare a sé la giurisdizione del caso Enrica Lexie.

La seconda riserva, ancora più pertinente, indica che l’India «interpreta che le disposizioni della Convenzione non autorizzano altri Stati a procedere, entro la zona economica esclusiva […]a manovre o esercizi militari, in particolare quelle che coinvolgano uso di armi da fuoco o esplosivi, senza il consenso dello Stato costiero». Ovvero, la presenza di due militari italiani che sparano entro 200 miglia dalla costa indiana, senza un permesso esplicito di New Delhi, è da ritenersi illegale. E il permesso di New Delhi, l’Italia, non ce l’ha.

Soldati o contractor?

Quando l’Enrica Lexie ha attraccato al porto di Kochi – per un corto circuito della catena di comando che, nella convenzione firmata da ministero della Difesa e Confitarma (Confederazione italiana armatori) nel 2011, conferisce al capitano della nave il diritto di decidere la rotta – all’arresto dei due marò inizia in India un iter giuridico che, come in tutte le democrazie del mondo, è indipendente dal potere esecutivo. Le pressioni diplomatiche, quindi, devono comunque sottostare alla conclusione naturale del processo dei due marò in India: la Corte suprema, giustamente, non ammette influenze del governo.

La sentenza della Corte speciale si occuperà proprio di questo: dirimere la spinosa disputa sulla giurisdizione, valutando se riconoscere l’immunità funzionale di Latorre e Girone. Se la Corte li considererà come militari in servizio, allora il processo sarà spostato in Italia. Ma se dovesse prevalere l’interpretazione che due marò a difesa di una nave privata non stanno svolgendo funzioni da militari, bensì di contractors, allora le chance di vedere un ritorno dei due fucilieri in Italia da imputati e non da condannati non sono molte.

La Corte suprema 

Terzi, nel suo discorso, ha anche sostenuto che la Corte suprema, il 18 gennaio, avesse concordato sul fatto che fosse necessaria una risoluzione del caso in un contesto internazionale. Ma la sentenza dice un’altra cosa: la Corte aveva confermato temporaneamente la giurisdizione all’India, dando il compito alla Corte speciale di pronunciarsi definitivamente sul caso e invitando la difesa dei marò, nella prossima udienza, a contestare la giurisdizione indiana rifacendosi all’articolo 100 della Unclos, che esorta le parti in causa alla massima collaborazione nella lotta antipirateria mondiale.

Quindi, se di arbitrato internazionale si parlerà, per l’India lo si farà solamente dopo la sentenza definitiva della Corte speciale che, lo ribadiamo, non ha niente a che vedere coi tribunali speciali fascisti, ma è una prerogativa indiana utilizzata non di rado in casi particolarmente spinosi o di alta rilevanza nazionale. In India la Corte speciale è la massima espressione della terzietà e autorevolezza del sistema giuridico, non uno stratagemma per sospendere i diritti degli imputati.

Esecutivo e giudiziario

Altra dichiarazione grave, Terzi ha ritenuto che «il governo indiano si era appunto rifiutato di dar seguito alla stessa sentenza della loro Corte Suprema, laddove stabiliva che essendo avvenuto il fatto in acque internazionale sarebbe dovuta essere la Convenzione Onu per il diritto marittimo a regolare la vertenza»: una tesi insostenibile, partendo dal presupposto elementare della divisione dei poteri nelle democrazie del globo terracqueo, e soprattutto infamante per l’esecutivo di Delhi, raccontando una spaccatura tra il governo e la Corte che, in India, non è mai avvenuta.

Queste imprecisioni, e usiamo un eufemismo, andranno in conto alla valutazione dell’operato del tecnico Giulio Terzi di Sant’Agata nel suo anno a capo della Farnesina.