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La rete magica di Quincy Jones

La rete magica di Quincy JonesIl produttore, compositore e musicista Quincy Jones (foto AP)

Miti/È stato uno degli artisti più rilevanti del ’900, capace di intrecciare stili, ambiti e rapporti. Per lui il jazz era il genere di riferimento

Pubblicato 4 giorni faEdizione del 9 novembre 2024

Quincy Jones – scomparso lo scorso 3 novembre a 91 anni – è stato uno degli artisti più importanti del Novecento; quando non era direttamente coinvolto nella produzione, nella scrittura, nella composizione, negli arrangiamenti, lui comunque c’era. Basta vedersi il documentario Quincy (2018) su Netflix per capire. Nonostante gli innumerevoli contributi al jazz, ambito da cui proveniva, il suo nome – che tutti conoscono anche se nessuno ha mai saputo esattamente cosa facesse – resta indissolubilmente legato soprattutto a due eventi: Thriller, l’album di Michael Jackson che aveva prodotto, e che a oggi è il disco più venduto di sempre (più o meno 70 milioni di copie a livello mondiale) e We Are the World, il singolo di beneficenza (all’ottavo posto per vendite nella storia) sempre con lui alla produzione.

FREQUENTAZIONI
C’è anche un altro pezzo che forse resterà per sempre incollato al suo nome: lo strumentale Soul Bossa Nova, sigla dei tre film della serie Austin Powers, una fusione funky travolgente di big band jazz e soul; intorno un mondo di suoni perlopiù in ambito afroamericano. Quincy Jones aveva iniziato la sua carriera a 14 anni come trombettista di Ray Charles (che ne aveva 16) e che considererà una delle sue maggiori fonti di ispirazione; passano quattro anni ed entra nell’orchestra di Lionel Hampton; c’è poi una borsa di studio al Berklee College of Music di Boston, gli arrangiamenti per Oscar Pettiford, pioniere del bebop e tante altre frequentazioni e amicizie jazz: Miles Davis, Charlie Parker, Dizzy Gillespie e Thelonious Monk. Nel 1961, a New York, sarà tra i primi afroamericani a rivestire un ruolo dirigenziale in ambito discografico come vice presidente della Mercury, etichetta di proprietà bianca, per cui inciderà, appunto, Soul Bossa Nova, titolo di riferimento di Big Band Bossa Nova (1962), album imperdibile con Quincy Jones a dirigere, arrangiare, produrre, e dentro una griglia di artisti incredibili: Lalo Schifrin (piano), Roland Kirk (flauto), Phil Woods (sax alto), Clark Terry (tromba, flicorno) e molti altri.
Il fatto che nel 1961 cura gli arrangiamenti di Genius + Soul = Jazz, l’album di Ray Charles; che già nel 1959 aveva arrangiato il primo di tanti dischi di Count Basie (che considerava come un padre), incluse le successive collaborazioni del pianista con Frank Sinatra (tra cui l’album It Might as well Be Swing, con dentro Fly Me to the Moon e il fondamentale live Sinatra at the Sands); che nel ’63 produce (su Mercury) la sua prima hit, It’s My Party, il classico pop di Lesley Gore, già prefigura cosa sarebbe avvenuto in futuro: una crescita costante e talmente enorme che il suo successo – come ha sottolineato Benny Carter, sassofonista, arrangiatore – può aver oscurato il suo talento; e non a caso si tende a congelarlo perlopiù nella casella di «grande produttore», «grande arrangiatore», Quincy Jones però era milioni di altre cose. Tanto per capire da dove partiva basta un aneddoto: a 15 anni viveva a Seattle e come detto presto sarebbe entrato nell’orchestra di Lionel Hampton; prima che avvenisse aveva consegnato una sua composizione originale al grande vibrafonista che sbalordito lo aveva assunto all’istante e inserito nell’ensemble che al tempo era in tour; il giorno dopo sarebbe intervenuta Gladys, la moglie e manager di Hampton, che avrebbe rispedito il ragazzino dritto a scuola. Questo era Quincy. Nella sua carriera ha lavorato con chiunque: da Aretha Franklin e Ella Fitzgerald a Sarah Vaughan, da Michael Jackson a Ringo Starr, da Paul Simon a Donna Summer, da Ice-T e Snoop Dogg a tanti altri hip hopper; non a caso la sua musica è stata sminuzzata e campionata in ambito hip hop – genere che ha molto fiancheggiato fondando anche la rivista specializzata Vibe e organizzando nel ’96 un incontro con una sfilza di rapper per fermare la violenza che flagella il genere; Dr. Dre, peraltro, ha dichiarato che Jones è stato la sua maggiore ispirazione e che grazie a lui è diventato produttore. Nella sua carriera si è cimentato con una sfilza di colonne sonore (L’uomo del banco dei pegni, La vita corre sul filo, La calda notte dell’ispettore Tibbs, A sangue freddo, Getaway!, The Wiz, Il colore viola ecc.), lavorando anche per la tv (sue le sigle di Ironside, Sanford and Son o del Bill Cosby Show e le musiche per il primo episodio della serie Radici); «Q», come lo aveva soprannominato il suo grande amico Frank Sinatra, non si è mai fermato, lavorava soprattutto di notte, innescava, a sua insaputa, cariche di suono che quando esplodevano potevano anche creare nuovi generi musicali; secondo Kendrick Lamar, ad esempio, è stato proprio Jones ad ispirare quelle mescolanze di jazz e hip hop che avrebbero poi dato vita al jazz rap. Convinto democrativo, impegnato per cancellare il debito dei paesi più poveri, legato a Nelson Mandela, anti trumpiano cento per cento e sempre perentorio nelle sue affernazioni, nel 2018 le sue dichiarazioni a Vulture, il sito online legato alla rivista New York, avevano fatto il giro del mondo; tra le tante che Michael Jackson copiava a mani basse, in particolare che Billy Jean era un plagio di State of Independence di Donna Summer, che i Beatles erano i peggiori musicisti al mondo e che Jimi Hendrix era un fifone: doveva suonare sull’album di Jones Gula Matari ma non se l’era sentita di misurarsi con nomi come Toots Thielemans, Herbie Hancock o Roland Kirk presenti in quel disco.

QUESTIONE INSOLUTA
E poi il grande cruccio esistenziale; la questione insoluta del razzismo negli Stati Uniti e un attacco poderoso a Trump, megafono dell’incultura Usa, degli «uneducated rednecks». E a chiudere, sempre in quell’intervista, l’ennesima dichiarazione d’amore per il jazz che in qualche modo – parlava di bebop – aveva cercato di insinuare in Baby Be Mine, un pezzo su Thriller scritto da Rod Temperton; raccontava: «Quel brano è John Coltrane in una canzone pop; il jazz è in cima a tutte le gerarchie perché i musicisti hanno imparato tutto quello che potevano sulla musica; ogni volta che ho visto Coltrane aveva con sé il libro di Nicolas Slonimsky (importantissimo musicologo che con il testo Thesaurus of Scales and Melodic Patterns influenzerà anche Frank Zappa e Jaco Pastorius, ndr)». Anche il suo era uno studio continuo, sentiva il bisogno di imparare e però intorno era circondato – diceva – dai soliti loop, beat, rime e ritornelli.
Lo spirito di ricerca del jazz era svanito e anche il modo di lavorare intorno a una canzone; parlava di mancanza di conoscenze musicali formali – lui che a Parigi, nel 1957, aveva studiato composizione e teoria con Nadia Boulanger – e puntualizzava: «La canzone è il potere; il cantante è il messaggero. Il miglior cantante al mondo non può salvare una brutta canzone». Quincy Jones sta tutto qui, l’artista giusto sempre nel posto giusto, in grado di creare – come il rizoma in botanica – una linea sulla quale, a intervalli regolari, compaiono nodi da cui si dipanano varie diramazioni, diversi livelli, ognuno anche apparentemente slegato dall’altro, Sinatra e Kendrick Lamar, ad esempio, ognuno mobile, multidirezionale, in grado di sprigionare nuovi immaginari, intrecci e soprattutto connessioni; non solo perché – come gli aveva insegnato Duke Ellington – la sua missione era di decategorizzare, non sentirsi cioè mai limitato musicalmente, né come afroamericano né come artista, ma anche perché Jones era il mago della relazione interpersonale, di una mobilità sociale e professionale, soprattutto in ambito artistico black, che alla fine creava le condizioni affinché tanta musica scorresse in mille direzioni, stili, mercati (importante in tal senso anche l’etichetta Qwest Records che aveva fondato nell’80). In questo Q, la sua autobiografia è illuminante, un reticolo di aneddoti, conoscenze, accordi, incontri. E soprattutto grandi musicisti diventati suoi amici e tanti suoi amici diventati grandi musicisti (Rod Temperton è un esempio emblematico). E lui sempre al centro. Con un talento per l’idea costante di arrangiamento – mescolare e abbinare – anche quando non si stava occupando di musica. Non esibirsi per Trump, il giorno del l’insediamento, il prossimo 20 gennaio 2025, sarebbe stata la sua ennesima, grande magia.

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