La resurrezione e l’ibernazione della morte
Verità nascoste La rubrica settimanale di Sarantis Thanopulos
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Una quattordicenne inglese, malata terminale, ha chiesto di essere ibernata dopo la morte. Nella speranza di una sua resurrezione futura, affidata al progresso della scienza. La giustizia britannica ha risolto il conflitto tra i genitori divorziati della ragazza – la madre favorevole alla richiesta, il padre contrario -, decidendo per l’ibernazione.
Morire a 14 anni è troppo duro. Il desiderio di sconfiggere un destino implacabile è molto umano. Questo è il punto di partenza necessario per ogni considerazione ulteriore.
Il fantasma della resurrezione ha due declinazioni. La prima è il figlio messianico: muore simbolicamente (come figura reale) nelle difficoltà del presente, per far avvenire miracolosamente (come figura ideale) un futuro avulso da esse. La seconda mette in scena l’araba fenice: la donna-uccello che risorge sempre dalle ceneri della sua passione, che da esse trae la sua invulnerabilità, la sua forza.
In una prospettiva psicoanalitica, le due declinazioni si integrano tra di loro nella configurazione unica di una madre che si innalza al di sopra del suo infelice destino di donna, grazie a un figlio redentore. Il fantasma della resurrezione ha le sue radici nell’identificazione della donna con un’erezione dissociata dalla congiunzione erotica. Un movimento di elevazione che contrasta lo scioglimento in profondità del corpo femminile, sia nel senso di una sua contrazione, irrigidimento sia nel senso di una sua smaterializzazione.
La morte come fine ineludibile della propria esistenza non è dissimile dalla perdita della fiducia nella propria apertura alla vita. Dalla seconda è, tuttavia, possibile difendersi, seppure al prezzo di una restrizione enorme dello spazio della propria esperienza. La ferita della femminilità, a cui la l’organizzazione sociale espone costantemente la donna, l’emorragia interna in cui si dissolve il suo spazio d’attesa, può trovare un drastico, contenimento nella “fibrosi” del suo corpo desiderante. Si preferisce che il tessuto cicatriziale si sostituisca al tessuto vivo, o che quest’ultimo si trasformi in energia spirituale pura, se è il dissanguarsi che appare come unica alternativa.
A 14 anni si è nel massimo della vulnerabilità femminile: tra la voglia di fiorire e il senso di caducità. Lo sbocciare, aprirsi sessualmente all’altro, appare prossimo all’appassire, al morire: un perdersi senza fine. Per un periodo si oscillerà tra il desiderio di lasciarsi andare, accogliendo un corpo altro, e un’esistenza androgina o ideale. L’incombere della morte fisica può diventare tutt’uno con il senso di fragilità sessuale che caratterizza questa età della donna. Fantasticare di ingannare la morte, per risorgere da qualche parte più forte e viva, è un’illusione che non può essere smentita.
In un mondo che spinge gli amanti fuori dalla relazione erotica nella simbiosi inconscia di madri e figli, il fantasma della resurrezione, così strettamente associato all’indifferenziazione dei sessi (androginia) e alla spiritualità (anoressia), appartiene in egual misura alla donna e all’uomo, anche se in modo molto meno evidente nel secondo.
Colpisce che l’ibernazione avvenga a morte avvenuta e non mentre si è ancora vivi. Non solo, né principalmente, per motivi legali. Si aspira a congelare non la vita, ma lo stato di morte senza decomposizione. La repressione, mortificazione, lacerazione della materia psicocorporea della femminilità in tutti noi, produce l’esigenza di uno stato devitalizzato dell’esistenza, dove tutto deve apparire ordinato e compatto. Non fare neppure una grinza che possa alludere alla paura e al dolore.
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