Visioni

La reporter che non guarda gli altri dall’alto al basso

La reporter che non guarda  gli altri dall’alto al basso«Vredepark», Johannesburg,1998 – di Jodi Bieber

Fotografia Invervista con la fotografa sudafricana Jodi Bieber, la sua mostra, alla Fondazione Carispezia di La Spezia, è visitabile fino al 4 marzo 2018. «Nonostante spesso io ritragga il dolore, non entro in relazione con le persone attraverso il pietismo. Non guardo dall’alto in basso, cerco di instaurare un rapporto»

Pubblicato quasi 7 anni faEdizione del 19 dicembre 2017

La linea di confine tra bianconero e colore è netta nel lavoro di Jodi Bieber (Johannesburg 1966), fotografa sudafricana, bianca, ebrea di origine tedesca. «Coincide con periodi diversi in Sudafrica, ma anche del mio umore. Prima ero orientata al bianco e nero, forse anche perché provengo da quella tradizione fotografica. Ora, però, guardo a colori», spiega in occasione della sua prima personale in Italia, Between Darkness and Light. Selected Works: South Africa 1994 – 2010 (a cura di Filippo Maggia), alla Fondazione Carispezia di La Spezia, visitabile fino al 4 marzo 2018). Sono esposte cento immagini delle sue serie più rilevanti – Between dogs & wolves – Growing up with South Africa, Going home – Illegality and Repatriation, Women who murdered their husbands e Soweto – molte delle quali hanno valso all’autrice prestigiosi riconoscimenti internazionali (tra l’altro nel 2011 è vincitrice del World Press Photo Award, sezione Portrait, con il ritratto di Bibi Aisha la giovane afghana fuggita da un marito violento che per punizione le tagliò naso e orecchie). «Tutto il corpo di Between dogs & wolves fa parte del mio primo lavoro e nasce dalla convinzione che ci sono sempre yin e yang, oscurità e luce. Ho iniziato a fotografare nel 1993 durante le elezioni democratiche in Sudafrica. Vedevo cose brutte, molti colleghi sono morti e il mio stato d’animo è diventato dark. Anche dopo, essere testimone di quello che succedeva è stato assai difficile. In quei primi dieci anni ho incontrato i giovani ai margini della società, baby gangster, bianchi e neri, ricchi e poveri. Ma ho imparato che tutti hanno una possibilità. L’abilità di sopravvivenza è incredibile e anche nelle difficoltà c’è una via per sopravvivere». Certamente se il bianconero esalta i contrasti della società sudafricana, il colore interpreta i suoi aspetti più vitali, come accade in Soweto (2009): Bieber entra nell’intimità delle persone, cogliendo frammenti di poesia nella banalità del quotidiano, come in quella foto scattata nella Casa per anziani a Central Western Jabavu con le ortensie rosa e azzurre messe in una bottiglia di plastica tagliata a metà.

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Lei considera la fotografia la chiave d’accesso privilegiata per osservare il mondo, fare esperienze di vita. Era già così negli anni ’90, quando ha fotografato gli «homeless» alla Salvation Army, lavoro che nel 1993 segnò il passaggio all’attività professionale?

È stato tutto molto naturale. Quando ho trovato la fotografia sono uscita nel mondo e nessuno mi ha più potuto fermare. Non avevo paura. Vedevo solo persone. Per me non erano gangster o homeless, ma individui. Avendo avuto esperienza con l’editing e il marketing so bene che un’immagine, o una serie fotografica, può essere manipolata per creare un certo tipo di narrativa. Ho cercato di essere il più possibile onesta. La fotografia può essere molto disonesta!

Quali sono i cliché del fotogiornalismo da cui ha sempre preso le distanze?

Quello che ho sempre cercato di dire è che non è tutto bianco e nero, in mezzo ci sono tante tonalità di grigio. L’Africa, oggi, ha voglia raccontare da sé la propria storia. Ci sono dei bravissimi giovani fotografi come Phumzile Khanyile, Lebohang Kganye, Jody Paulson, Kudzanai Chiurai, Jabulani Dhlamini che fanno un lavoro completamente diverso dal mio, o da quello di altri reporter precedenti, perché la loro esperienza è differente. Molti stanno alla larga da social media come Instagram o Facebook; per me è invece importante che chiunque possa raccontare la propria vita.

David Goldblatt e Santu Mofokeng sono due grandi maestri della fotografia sudafricana, non solo dal punto di vista professionale, anche da quello umano. Li vede come dei mentori?

Certamente David, che ha dato tantissimo alla fotografia sudafricana con il Market Photo Workshop, è stato il mio mentore. Ancora oggi con il mio nuovo progetto, alzo il telefono e lo chiamo. «Ciao David, posso venire a trovarti?». Lui è sempre disponibile con tutti, guarda il lavoro, osservandolo veramente. È molto diretto. Conosco bene anche sua moglie Lily. Quanto a Santu, il rapporto è più professionale, abbiamo esposto più volte insieme.

Intorno a tematiche di genere ha realizzato i progetti «Women who murdered their husbands» e «Survivors of Domestic Violence», che ha un precedente nel lavoro di Donna Ferrato. Come concilia la sua sfera emozionale con realtà particolarmente dure come queste?ù

Per la mia salute mentale sono dovuta emigrare in Europa per cinque anni. Due anni e mezzo ho vissuto a Parigi, tornando in continuazione per lavoro in Sudafrica e andando in giro per il mondo. Gli altri due e mezzo, mi sono trasferita a Londra. Parlo di salute mentale perché – come giovane fotografa – non pensavo agli effetti psicologico su di me di incontri come quelli. Per anni, ad esempio, mi è stato impossibile riascoltare le registrazioni delle vittime di violenze. Ogni progetto la la sua storia, ma l’elemento comune è la vicinanza al soggetto. Women who murdered their husbands, esposto per la prima volta nella sua interezza in questa mostra, è stato concepito in dittici. Ho fotografato in pellicola usando la mia vecchia Yashica Mat 124 G. Avevo avuto il permesso di entrare nel carcere femminile di Johannesburg per un solo giorno, durante il quale potevo ritrarre le donne che avevano assassinato il loro compagno. Le detenute stavano tutte in una grande camerata, ma subito mi colpì come lo spazio di ognuna raccontasse qualcosa di chi lo abitava. Per questo, accanto al ritratto della donna, ho esposto un particolare del suo spazio. Di ognuna ho raccolto lunghe interviste sulle motivazioni che le avevano spinte ad uccidere il compagno. La maggior parte di loro aveav convissuto con uomini estremamente violenti.

In questi lavori si coglie una certa vicinanza, la fotografia è solo un aspetto della documentazione…

Ho raccolto approfondite interviste anche quando mi sono occupata dei gangster. In Real Beauty, che è diventato poi un libro, è andata nella stessa maniera. Ho potuto, inoltre, coinvolgere cinque autori diversi che hanno scritto su diversi aspetti della bellezza. Non credo solo nel potere della fotografia, per me è stata sempre importante anche la parola scritta. È stato fantastico poter lavorare a questo progetto. Pur essendo una fotografa che affronta temi molto seri, mi sono ritrovata a casa di quelle signore che mi hanno accolta con vino e cibo, tutte prese dal cercare pose divertenti. Un lavoro che ha dato alle donne l’opportunità di liberare la loro fantasia per tre ore. Ma non è qualcosa che riguarda solo l’apparenza. Esplora aspetti sociali del Sudafrica intorno al corpo, dalla percezione all’Aids all’immagine femminile sudafricana. È stata un’occasione per mostrare ad altre donne che, pur se da quando siamo piccole guardiamo riviste di moda come Vogue, che ci richiedono di essere perfette, non dev’essere necessariamente così….

Il tema della bellezza torna parlando del ritratto di Bibi Aisha…

Non appena ho visto quella ragazza sono stata colpita dalla sua bellezza. Solo dopo ho notato il naso. Anche in molti altri miei lavori è presente il dolore. Ma non entro in relazione con le persone attraverso il pietismo. Non guardo dall’alto in basso, cerco di instaurare un rapporto. La mancanza del naso di Bibi Aisha era una realtà, ma lei era così bella che sembrava tutto naturale. Curiosamente è successo proprio nel momento in cui avevo detto all’editore del New York Times che non avrei più fatto fotogiornalismo. Proprio con quella foto, invece, ho vinto il più importante premio di fotogiornalismo. Quando ero nella stanza con lei le dissi di pensare alla bellezza e alla forza. E in quel momento scattai. Mi sentivo in colpa perché non era la foto giusta, invece quelle tre ore trascorse con Bibi Aiasha le hanno permesso di cambiare la sua vita, ora lei è negli Stati Uniti e vive in libertà.

Qual è la storia della foto «Il silenzio delle gemelle Ranto» con cui si apre la mostra?

Nel palazzo dove vivevo eravamo tutti amici e c’era una signora, leader del sindacato delle lavoratrici domestiche, che una volta mi invitò ad andare con lei a un matrimonio fuori Johannesburg. Lì vidi quelle gemelline che, anche se erano dolci e carinissime, non parlavano. Perché non parlavano? Qualcosa doveva essere successo loro… Quella foto è la metafora stessa del mio lavoro.

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