Cultura

La realtà ha una dimensione onirica

La realtà ha una dimensione oniricaMarialba Russo, «Travestimento», 1976 – courtesy of the artist

Intervista Un incontro nel suo studio con Marialba Russo, fotografa partenopea che vive a Roma, in mostra nella collettiva «Soggetto nomade», al Pecci di Prato

Pubblicato più di 5 anni faEdizione del 7 marzo 2019

Al di qua e al di là della scrivania: la conversazione si svolge nello studio di Marialba Russo (nata a Giugliano in Campania, dal 1987 vive a Roma). La lampada da tavolo illumina i nostri volti lasciando il resto avvolto nella semioscurità di un tardo pomeriggio invernale. I libri sono da un lato, impilati uno sull’altro.
C’è anche Travestimento (Postcart 2016, menzione speciale Premio Marco Bastianelli 2017), riedizione dei «Quaderni dello Sguardo Anni Settanta», collana ideata dalla stessa fotografa. Un volume che sfiora quel confine quasi impercettibile tra sacro e profano nel raccontare in bianco e nero l’aspetto del travestimento nella cultura carnevalesca, quando gli uomini si mascherano da donne.
L’autrice li fotografa in Campania tra il 1975 e il 1980, soffermandosi su quei volti che tra smorfie e cedimenti caricaturali rivelano soprattutto una vena di profonda malinconia. Alcuni scatti sono esposti nella collettiva Soggetto nomade. Identità femminile attraverso gli scatti di cinque fotografe italiane. 1965-1985. Paola Agosti, Letizia Battaglia, Lisetta Carmi, Elisabetta Catalano, Marialba Russo, a cura di Cristiana Perrella e Elena Magini al Centro per l’Arte Contemporanea Luigi Pecci di Prato (fino a domani, 8 marzo).

Nel frattempo Marialba Russo lavora a due nuove pubblicazioni: una è più lenta, ci vorrà ancora un anno (o forse più) e chiuderà la trilogia iniziata con L’incanto (2004) e Confine (2015). L’altra, sempre con Postcart, è imminente (primavera 2019) e coniuga scrittura e fotografia: tre brevi racconti che traducono il momento epifanico. «Ero andata a trovare degli amici in campagna, ma non li trovai perché erano usciti – ricorda l’autrice – allora mi sono seduta ad aspettarli e c’era un papero immobile. Sono stata lì a osservarlo tutto il tempo. Lui, sempre immobile, scrutava la valle. Ho cominciato a pensare quali potessero essere, in quel momento, i suoi pensieri tanto era assorto. Così ho creato questa breve storia, una delle tre narrazioni del libro. Il pensiero del papero».

Pensa che affidare le sue immagini alla forma del volume fotografico possa permettere una lettura diversa?
Inizialmente esiste solamente un’esperienza visiva, un accadimento, un fatto che determina una scelta. Comincio a lavorare su un argomento, ma non ho un’idea precisa. È una costruzione lenta. In media, lavoro dieci anni per la realizzazione di un libro, anche se durante quel periodo nascono diversi progetti. L’incanto e Confine fanno parte di una trilogia, insieme a l’ultimo a cui sto lavorando. Tra il primo e il secondo sono trascorsi dieci anni, ma in realtà sono stati realizzati quasi contemporaneamente, perché mentre lavoravo su uno, facevo lo stesso con l’altro e un altro ancora, a volte nella stessa giornata.
In questa trilogia l’elemento primario è la fuga tratteggiata in una maniera simbolica attraverso l’uomo, l’animale, il pensiero. Con la pubblicazione del terzo libro il lavoro si comprenderà nella sua interezza. Quindi, tornando alla domanda, non parto da un’idea precisa. Quest’idea si struttura e man mano viene fuori la storia. Qualche volta sono storie con allusioni autobiografiche, altre volte sono mentali.
È nell’insieme di tutto il lavoro che nasce il racconto con la necessità, da parte mia, di renderlo sonoro in riferimento al tempo. Ogni immagine succede all’altra senza sbalzi cronologici, come se l’occhio seguitasse a guardare in una maniera continua senza pause, senza battiti diversi dal tempo che ho stabilito per il libro. Richiede una ricerca enorme: le immagini devono vivere da sole a prescindere dalla storia che vado a creare. Sono prese dalla realtà che io determino in una certa successione per visualizzare una storia che abbia un principio e una fine.
L’incanto è la fuga da se stessi alla ricerca dell’altro, mentre con Confine la fuga si dirige verso la libertà. Bisogna mettere in conto anche che, occupandomi di sociale, tutto è vissuto in una cornice che riguarda la società reale. Poi lo trasporto in una dimensione onirica, di metafora, di intimismo che è alla base di ogni ricerca e lavoro.

Marialba Russo, «L’incanto» (courtesy of the artist)

Nei libri «L’incanto» e «Confine» questo legame fortissimo con la natura, la terra, animali può essere letto anche come una ricerca di riappacificazione con se stessi?
Sono spazi liberi, paesaggi dove ci si situa e si guarda e si sceglie. Certamente sono gli elementi che più mi sono vicini, in questi ultimi anni. Il paesaggio, che può essere interiore, esteso, diventa l’elemento della descrizione del racconto. La visione di questi grandi spazi dove s’insinua una ricerca è, per me, qualcosa di veramente importante.

In questa costruzione lei attinge al suo archivio?
No, sono immagini che realizzo al momento.

Il bianco e nero è la sua cifra espressiva, ma nel libro «Il ritratto di me» (1999) sono raccolte fotografie colorate a mano, quasi un tentativo di raccontare qualcosa di autobiografico…
È una piccola biografia sul volto che parte da me bambina. Sono come dei flash che cercano di raccontare alcune storie su di me.

Sono presenti anche i ritratti realizzati da Marc Riboud, Roberto Salbitani e Josef Koudelka. In particolare la foto scattata da Koudelka è molto intima: lei dorme con la mascherina sugli occhi…

Sono tutti miei amici e mi è capitato di avere delle fotografie fatte da loro. Ho pensato fosse bello inserirle anche come fossero uno sguardo dal di fuori. Foto realizzate durante i viaggi, in cui l’amicizia cresceva come la conoscenza. Quella di Koudelka è stata scattata durante il pellegrinaggio alla Madonna sul Monte Pollino, in Basilicata. Non c’erano case e di notte si doveva dormire nel sacco a pelo. Lui, evidentemente, è passato e mi ha fatto quella fotografia che poi mi ha spedito. La religiosità e le rappresentazioni rituali e profane, nell’Italia centro-meridionale, hanno rappresentato proprio un tema della mia ricerca negli anni ’70 e ’80.

A questo si riferisce Alberto Moravia nella lettera pubblicata in «Fotografie 1980-1987» quando parla di «fulminee manifestazioni del mistero che James Joyce appropriatamente chiamava epifanie». Aggiunge che non è un caso che le tue epifanie siano scattate a Napoli e nel sud Italia; fa, poi, un parallelo tra l’architettura barocca che «grida e gesticola» e il «rassegnato mutismo delle cose e delle persone più umili»…
Sì, persone che non hanno il potere della parola.

Attraverso la fotografia viene restituita loro la parola?
Cerco di trovare una maniera giusta di approccio di fronte a una situazione reale, affinché ci sia una certa  spontaneità.

In questo suo sguardo dalla matrice neorealista c’è molta consapevolezza. Qual è l’equilibrio tra l’approccio antropologico e il reportage?
Credo che il mio lavoro non sia una storia di reportage. Non mi interessa tanto raccontare il fatto, premessa peculiare del reportage, quanto la persona nel suo insieme, la sua storia, la possibilità di dire o non poter dire, vivere o non poter vivere. Qualcuno ha detto che le mie immagini – sono abbastanza d’accordo – vivono un’astrazione perché è come se si fermassero in un momento preciso, che non è né un «prima» né un «dopo».

Tornando ai «momenti», gli scatti realizzati in varie località della Campania tra il 1975 e il 1980, raccolti in «Travestimento» sono delle mascherate profane in cui dagli sguardi di quegli uomini travestiti da donne trapela malinconia…
Sì. È il catturare dal contesto quel qualcosa di impercettibile che in quel momento vedo, percepisco e cerco di restituire allo sguardo. Sono volti con la trasparenza di un’interiorità. A prescindere dalle ritualizzazioni, rappresentazioni o manifestazioni legate al mondo popolare, all’interno di tutto questo che c’è una piccola sfumatura. Ecco, lavoro sulle sfumature per quello che riesco a vedere.

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