Internazionale

La rabbia dei campi profughi

La rabbia dei campi profughiPalestinesi armati nel campo profughi di Qalandiya – Flash 90

Cisgiordania Abu Mazen e le leadership dell'Anp e di Fatah devono fare i conti con la frustrazione e la disperazione tra i profughi palestinesi e nelle periferie urbane. Una rabbia che sempre di più sfida le forze di sicurezza agli ordini del presidente

Pubblicato più di 8 anni faEdizione del 20 giugno 2016
Michele GiorgioGERUSALEMME

Era diretto a Gerusalemme il ministro palestinese per l’assistenza sociale Ibrahim al Shaer bloccato a inizio settimana da uomini armati, non lontano dal campo profughi di Qalandiya. Armi in pugno il “commando” hanno costretto al Shaer ad allontarsi e gli ha portato via l’auto. Un caso di crimininalità si potrebbe pensare. Ma è rimasto coinvolto un ministro e due giorni dopo l’aggressione unità scelte delle forze di sicurezza dell’Anp hanno effettuato raid e perquisizioni in tutta la zona, da Kufr Aqab fino a Qalandiya. Quando hanno recuperato l’auto sono finite sotto il fuoco di profughi armati di Qalandiya. Non ci sono stati feriti ma la notizia ha fatto il giro della Cisgiordania.

Mentre i media e gli analisti si concentrano sulla spinosa questione di chi, presto o tardi, prenderà il posto del presidente dell’Anp Abu Mazen e prevedono scontri, tra i potenziali candidati a guidare l’Anp, nelle strade dei centri abitati palestinesi si parla di «falaten amni», ossia del caos di sicurezza che regna in diversi campi profughi, in particolare quelli di Balata (Nablus), Jenin e Qalandiya. Una semi-anarchia è che frutto di diverse cause, dalla disoccupazione dilagante e la mancanza di prospettive fino al disorientamento della nuova generazione palestinese che si considera non rappresentata, se non addirittura oppressa dall’Anp, e contesta apertamente la leadership di Abu Mazen e respinge con forza la cooperazione di sicurezza con Israele. Tra i ribelli ci sono tanti giovani vicini al movimento Fatah guidato dal presidente palestinese.

Balata, Jenin, Qalandiya sono off-limits per le forze di sicurezza dell’Anp. Quello di Balata da due-tre anni è una sorta di “area autonoma” dove gli abitanti di autogovernano e svolgono anche attività illecite che servono a garantire la sopravvivenza a centinaia (a dir poco) di famiglie senza reddito a causa della disoccupazione. «A Balata e in altri campi profughi la gente ci accusa di non far nulla per cambiare la loro condizione e di pensare solo alle città e a sviluppare Ramallah. Ed io penso che queste accuse sia giuste» ci dice H. A., un anziano dirigente di Fatah, un ex combattente, che non esita a puntare l’indice contro i vertici del movimento «incapace» sostiene «di comprendere che la gente è stanca, perchè deve fare i conti con l’occupazione israeliana e la mancanza di libertà e le condizioni di vita sempre più dure». Nessuno lo dice ad alta voce eppure tutti sanno in alcuni campi profughi e nei sobborghi poveri di alcune città della Cisgiordania sono di nuovo presenti militanti delle Brigate dei Martiri di al Aqsa, il gruppo armato di Fatah nato all’inizio della seconda Intifada (2000) che, ufficialmente, si è sciolto alcuni anni fa dopo un accordo di «amnestia» raggiunto con Israele. Brigate di al Aqsa un po’ diverse da quelle originarie, schierate sempre contro l’occupante israeliano ma anche contro i vertici dell’Anp e che mantengono legami con la criminalità. Sono giovani che guardano con rabbia e frustrazione alla costruzione incessante di palazzoni alti e lussuosi a Ramallah mentre nei campi profughi si vive in condizioni di affollamento e precarietà.

Gli “incidenti”, come li definisce la stampa locale, si moltiplicano. Di recente uomini armati hanno aperto il fuoco contro una stazione di polizia dell’Anp a Yamoun (Jenin). Ad aprile decine di membri della famiglia Jaradat non ha esitato ad affrontare, armi in pugno, la polizia dell’Anp nel campo profughi di Jenin (due feriti). Il mese scorso uomini mascherati e armati hanno rubato una macchina della polizia palestinese in pieno giorno nel centro di Ramallah. La polizia ha preferito non arrestare i responsabili per scongiurare reazioni popolari. All’inizio di giugno a Nablus sconosciuti hanno sparato contro la casa dell’ex sindaco e leader di Fatah Ghassan Shakaa secondo il quale la situazione di sicurezza «è migliore a Gaza con Hamas». In realtà anche il movimento islamico fa i conti con l’aumento della criminalità e ha visto calare il suo consenso tra i palestinesi della Striscia.
Di fronte a ciò la leadership di Fatah invece di analizzare le ragioni profonde di una situazione in ebollizione, specie nei campi profughi, si limita ad indicare come responsabile del “caos” l’avversario di Abu Mazen ed ex capo della sicurezza dell’Anp a Gaza Mohammed Dahlan, espulso da Fatah qualche anno fa. «Certo, Dahlan fa il suo gioco e con i soldi cerca di istigare alla ribellione la gente dei campi ma non è lui il vero problema, lo sanno tutti» commenta H.A. scuotendo la testa «il problema reale è la nostra direzione politica, incapace di mettere fine all’occupazione israeliana e di capire i bisogni della nostra gente, dei giovani. E’ questa la ragione del nostro declino e della contestazione».

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