All’ingresso del lager di Auschwitz I campeggia la tristemente nota scritta «Arbeit macht frei», forgiata in stampatello. Quello che i più non sanno è che la lettera B è stata montata in modo errato, con l’occhiello superiore più grande di quello inferiore. Si pensa che sia stato lo stesso fabbro forgiatore, Jan Liwacz, a sua volta prigioniero polacco del campo tedesco, ad essersi astutamente adoperato in tale modo, in una sorta di capovolgimento del senso del motto. Poiché se nell’età della modernità borghese, come nella costruzione di un’identità socialista, è il lavoro a dare forma e sostanza all’emancipazione individuale, nonché a quella collettiva, nel luogo della massima perversione di tale presupposto allora le medesime lettere e le stesse parole dovevano risultare rovesciate nel loro opposto.

ANCHE DA QUESTA memento, che suggella un legame irrisolto tra memorie del passato e comprensione del presente, così come nel rapporto tra lavoro e libertà, deriva l’attualità della riflessione che Manuel Disegni offre nel suo corposo studio dedicato alla Critica della questione ebraica. Karl Marx e l’antisemitismo (Bollati Boringhieri, pp. 442, euro 28). In qualsiasi riflessione c’è sempre un soggetto al pari di un oggetto. Se ci si riferisce ad un libro, il primo è l’autore, con la sua storia personale. Il secondo, a conti fatti, trattandosi delle tesi sostenute nel volume medesimo, non è esclusivamente un dato, un fatto, bensì soprattutto un atto di interpretazione. Cerchiamo di capirci a tale riguardo: è storia, ossia cognizione comunemente condivisibile del passato, quanto rientra nel campo della plausibilità interpretativa. In tutto ciò, anche se molti fingono che possa essere altrimenti, sussiste sempre un differenziale generazionale. In altre parole, con il trascorrere del tempo, non si pensa il medesimo «oggetto» nella stessa misura del passato. Se poi si accostano due temi, di per sé problematici a prescindere, come il complesso pensiero di Karl Marx, oggi ridotto ad una pantomima della sua essenza, e la «questione ebraica», ovvero lo statuto e la legittimazione di una minoranza nell’epoca – l’Ottocento – di consolidamento delle maggioranze «borghesi», il rischio di facili cortocircuiti è immediatamente dietro l’angolo. Sono infatti tali le letture univoche, che, nel tentativo di affermare una versione definitiva, sopraffanno qualsiasi interpretazione aperta.

VENIAMO ALLORA al dunque: il tema del rapporto che Karl Marx intrattenne con l’antisemitismo, e di rovescio con l’ebraismo, è stato variamente stropicciato nelle interpretazioni che si sono susseguite dalla sua morte in poi. Argomento apparentemente marginale rispetto all’agenda politica dei movimenti socialisti e poi di quello comunista, l’antisemitismo ha peraltro assunto la natura di indice e paradigma di condotte criminali inemendabili a partire dalla catastrofe europea degli anni Trenta e Quaranta in poi. In altre parole, mutando i tempi e, con essi, gli ordini di priorità nelle condotte collettive, si sono trasformati anche i criteri di rilevanza rispetto al loro giudizio: ciò che un tempo poteva assumere determinati significati, con la periodizzazione successiva ne ha rivestiti di nuovi. Con essi è variata anche la natura dei codici espressivi e comunicativi adottati per definire il fenomeno. Non si tratta tuttavia, in questo caso, di un invito al relativismo. Semmai è uno sforzo di contestualizzazione e storicizzazione, rispetto alle semplificazioni e alle banalizzazioni che attraversano il «non dibattito» nel presente. L’antisemitismo, già moneta comune nel discorso pubblico di tutto l’800 e del primo 900, con l’affermazione dei regimi fascisti e il transito verso politiche di persecuzione prima e di sterminio poi, è divenuto indice di una perversione assoluta, non solo civile e ideologica ma anche morale.

IL PUNTO NODALE, se ci si adopera in un lavoro di lettura critica, è allora lo sganciare l’interpretazione rispetto al lungo corso del pregiudizio antiebraico da alcuni presupposti altrimenti fuorvianti. Il primo di essi, per l’appunto, è quello che riconduce tutta la variegata vulgata antisemitica al suo esito estremo. Poiché la definizione di antisemitismo, in tale modo, rischia di essere ricondotta ad una sorta di dimensione metastorica, apodittica, falsamente onnicomprensiva. Il secondo aspetto, è di comprendere come Marx, i suoi epigoni al pari della più vasta platea socialista, abbiano identificato e circoscritto, rispetto non solo ai loro ordini di riflessioni ma alle priorità dell’azione politica, l’antisemitismo medesimo. Eventualmente, nel qual caso, anche utilizzato. Posto che quest’ultimo – ed è il tratto ricorrente del testo – non è una generica avversione verso gli «ebrei» bensì uno dei vettori impiegati ripetutamente per produrre mobilitazione sociale in collettività attraversate da una profonda trasformazione. Disegni, ad un certo punto, afferma come criterio di metodo: «Così come lo studio clinico di una patologia deve fondarsi su adeguate conoscenze anatomiche, chi voglia comprendere la natura e le cause dell’antisemitismo moderno deve conoscere le strutture fondamentali della società capitalistica entro cui si è generato». Del pari: «L’analisi della violenza antisemita può consentire un accesso privilegiato alla comprensione generale di quelle strutture».

L’autore, quindi, si adopera da subito contro quella che definisce come un’astratta e dogmatica concezione dell’antisemitismo, sostanzialmente astorica e decontestualizzata. Dall’incauto ricorso ad essa, infatti, deriva una biforcazione dove i detrattori di Marx identificano nel suo pensiero una sostanziale adesione ai motivi antigiudaici, mentre i suoi apologeti rinunciano ad una lettura critica del rapporto che egli intrattenne non tanto con l’ebraismo quanto con il suo rigetto per parte altrui, soprattutto laddove tutto ciò era utilizzato come strumento di mobilitazione politica. Fondamentale, da questo punto di vista, è la comprensione di come i cliché antisemitici costituissero parte di un arsenale polemico che significative componenti dello stesso socialismo avevano fatto propri nella critica della «società borghese».

NON DI MENO, l’autore si interroga su cosa abbia effettivamente detto Marx riguardo al fenomeno dell’antiebraismo, in quali circostanze si sia effettivamente pronunciato, quali fossero le condizioni del lavoro culturale che costituivano la cornice delle sue manifestazioni di giudizio. Ne è quindi derivato un volume densamente analitico, nel quale si ritrova e si recupera un dibattito che ha attraversato due secoli e che, per molti aspetti, oggi sembra essere stato quasi completamente dimenticato, rimosso, comunque smarrito. L’equilibrio complesso che Disegni deve mantenere è quello che da sempre intercorre, dentro il pensiero marxista, tra l’impianto filosofico originario e la propensione a tradurre ogni funzione sociale in manifestazione dei processi economici.

Il rischio di una lettura deterministica dei fenomeni sociali, ricondotti ai meri processi di accumulazione della ricchezza, senza che si evidenzi anche l’autonomia dei percorsi culturali, è un altro passaggio indispensabile. Così come l’autore compie lo sforzo di dimostrare, riprendendo riflessioni di altri studiosi, quanto sia la stessa nozione illuministica di progresso, quindi l’idea di modernità, a contenere in sé la potenziale negazione dell’emancipazione promessa. L’uscita del libro si è prestata anche ad alcune recensioni critiche, se non polemiche. Le tesi di fondo dell’autore sembrano avere irritato una parte dei lettori più avvertiti. Avendo riscontrato in esse una sorta di anacronistico tentativo di emendare il pensiero di Marx da incrostazioni antigiudaiche.

Se ognuno degli appunti va colto, e quindi eventualmente controbattuto, nel suo effettivo contenuto, rimane comunque l’impressione che lo sforzo di Disegni – ossia quello di affrancare con una disamina al medesimo tempo storica, culturale e lessicale, l’immagine ad oggi ricorrente di un Marx che avrebbe nutrito esclusivo «odio verso di sé», anche in quanto ebreo convertito – stia solleticando rovelli e rodimenti diffusi. Il libro può essere comunque letto in molti modi. Si tratta di un’opera complessiva sull’indagine marxiana rispetto all’antisemitismo. Ma è anche un lavoro sulle culture politiche della società liberale e borghese così come sui movimenti che ne hanno contrastato l’egemonia crescente. Al pari, infine, di un’indagine, quest’ultima più che mai attuale, su quanto l’antisemitismo sia stato e rimanga il vero punto di coagulo di quell’area magmatica che è costituita dai cosiddetti rosso-bruni, dove al lavoro si sostituisce il paradigma etno-nazionalista.